Category Archives: Auto Classiche

L’auto che non c’è (più)

Le auto d’epoca non hanno solo il compito di ricordarci il passato ma possono esserci utili per comprendere il futuro di un marchio. Analizzando la gamma attuale di dieci importanti brand e confrontandola con le vetture presenti in listino negli scorsi anni abbiamo notato numerose assenze: segmenti prima coperti e ora abbandonati che non ci dispiacerebbe rivedere.Non è un caso che in questo elenco manchino le Case tedesche “premium”: se sono riuscite ad affrontare la crisi e a superarla senza strascichi è stato anche grazie ad un’offerta completa di modelli in grado di soddisfare qualsiasi esigenza. Di seguito troverete invece esempi di aziende a cui manca una vettura “chiave”.Alfa RomeoDa anni si parla di una SUV Alfa Romeo ma, salvo una concept mostrata nel lontano 2003, non si è mai visto finora niente di concreto. E pensare che all’inizio degli anni Cinquanta il Biscione si cimentò nel segmento delle fuoristrada con la Matta: una 4×4 adatta ai percorsi più duri basata sul pianale della Jeep. A quando un nuovo incontro tra questi due brand? In fondo ora fanno parte della stessa famiglia…CitroënApprezziamo il fatto che la Citroën abbia deciso di riproporre il nome DS per ribattezzare modelli esclusivi. Ora resta solo da creare una rivisitazione in chiave moderna di una delle ammiraglie più seducenti di sempre.FiatLa gamma delle vetture tradizionali Fiat oggi si ferma alla Bravo: chi vuole un mezzo più spazioso deve necessariamente puntare sulle monovolume o sulle SUV. Molti, però, rimpiangono le vecche berline della Casa torinese: dalla 131 alla Marea passando per la Regata e la Tempra.FordUna piccola coupé – erede della Ford Puma – realizzata sullo stesso pianale della Fiesta ridarrebbe vita al segmento delle piccole sportive, molto in voga negli anni ’90.LanciaCerchiamo di essere realisti: nei prossimi anni la Lancia opererà solo in Italia e venderà esclusivamente Ypsilon. Inutile, quindi, sognare sportive grintose ed eleganti che non vedremo mai. Voliamo basso, quindi: una berlina su pianale Delta allungato (naturalmente disponibile anche station wagon, segmento inspiegabilmente abbandonato dal Gruppo Fiat) – erede di Dedra e Lybra  – non sarebbe una cattiva idea.NissanCon il lancio della compatta Pulsar la Nissan ha dimostrato al mondo di voler puntare nuovamente sulle auto “normali” dopo averci riempiti di SUV e crossover. Il passo successivo potrebbe essere quello di sfruttare un pianale del “segmento D” per realizzare una nuova Primera, berlina abbandonata nel 2008.OpelLa Opel Insignia ha un buon pianale e un design sportivo. Basterebbe, a nostro avviso, davvero poco per realizzare su questa base una grande coupé a due porte in grado di ripercorrere le orme della Calibra.PeugeotCosì come le Case italiane hanno dimenticato le station wagon quelle francesi hanno smesso di produrre ammiraglie. In questi ultimi anni la Peugeot – con la 308 e la 508 – ha dimostrato di poter competere ad armi pari con le tedesche. Sarebbe un’ottima mossa – a nostro avviso – riprendere il discorso della 607, un’auto tanto valida quanto sottovalutata: contribuirebbe secondo noi a migliorare ulteriormente l’immagine del brand.RenaultStesso discorso per la Renault. Manca una vettura di rappresentanza transalpina: non è possibile che il presidente francese debba viaggiare su un’auto come la Citroën DS5, ottima ma pur sempre lunga solo quattro metri e mezzo. La Latitude – non commercializzata nel nostro Paese – non basta, anche perché è assemblata in Corea. Ci vuole un modello più raffinato, che simboleggi la “grandeur”: una berlinona a cinque porte simile nell’impostazione alla 25 e alla Safrane.ToyotaL’auto che vorremmo nel listino della Toyota? Una spider a trazione posteriore erede della MR2. Non sarebbe una cattiva idea riproporre il motore centrale ma in tempi di crisi ci accontentiamo del pianale della GT86.

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Classe V e Viano, la storia delle grandi monovolume Mercedes

Da diciott’anni le grandi monovolume Mercedes classe V e Viano soddisfano le esigenze di padri di famiglia che cercano spazio ma non possono rinunciare all’eleganza. L’ultima proposta del marchio della Stella, la seconda generazione della “V” (disponibile a trazione posteriore o integrale), è in commercio dal 2014: spaziosissima, raffinata e ricca di tecnologia, ha una gamma motori che comprende un 2.1 turbodiesel in tre configurazioni di potenza (136, 163 e 190 CV). Scopriamo insieme la storia delle ingombranti MPV della Casa tedesca, l’unico marchio “premium” (insieme a Lancia) a puntare su questo segmento.Mercedes classe V prima generazione (1996)La prima generazione della classe V rappresenta il debutto della Mercedes nel segmento delle grandi monovolume. Realizzata sulla stessa base – a trazione anteriore – del veicolo commerciale Vito, ha una gamma motori al lancio composta da tre unità: due a benzina (2.0 da 129 CV e 2.3 da 143 CV) e un 2.3 turbodiesel da 72 CV.Nel 1998 debutta un 2.8 a benzina da 174 CV mentre l’anno seguente è la volta di un 2.2 a gasolio da 122 CV. Il diesel “base” abbandona le scene nel 2000 mentre il 2.0 e il 2.8 a ciclo Otto lasciano i listini due anni dopo.Mercedes Viano (2004)La Mercedes Viano si distingue dall’antenata per le forme più arrotondate, per le dimensioni esterne più ingombranti e per la possibilità di accogliere fino a otto passeggeri. Senza dimenticare la trazione posteriore.La versione pre-restyling – in commercio fino al 2010 – ha una gamma motori molto ricca che comprende quattro unità V6 a benzina (3.0 da 190 CV, 3.2 da 218 CV, 3.7 da 231 CV e 3.5 da 258 CV) e quattro turbodiesel CDI (2.2 da 109, 116 e 150 CV e 3.0 V6 da 204 CV).La Mercedes Viano beneficia di un profondo lifting nel 2010, che porta un frontale più elegante, una plancia più raffinata e un comfort migliorato (grazie anche alla riprogettazione delle sospensioni). Tre propulsori – tutti CDI a gasolio – in gamma (2.2 da 136 e 183 CV e 3.0 V6 da 224 CV), rimpiazzati nel 2013 da un 2.2 da 163 CV e da un tre litri da 224 CV, affiancato da altre due unità V6 a ciclo Otto (3.2 da 190 CV e 3.5 da 258 CV).

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Robert Bamford, il cofondatore dell’Aston Martin

All’inizio del XX secolo Robert Bamford contribuì, insieme a Lionel Martin, a fondare l’Aston Martin. Scopriamo insieme la storia di questo ingegnere britannico, creatore di uno dei marchi europei più blasonati.Robert Bamford, la storiaRobert Bamford nasce nel 1883 a Lamarsh (Regno Unito). Figlio di un reverendo anglicano e fratello maggiore di Edward Bamford (che diventerà un eroe di guerra durante il primo conflitto mondiale), inizia fin da giovane a mostrare interesse per il mondo della meccanica.L’Aston MartinIl 15 gennaio 1913 Robert crea a Londra insieme al pilota Lionel Martin la Bamford & Martin, una concessionaria di automobili Singer dotata anche di officina. L’anno seguente i due creano un prototipo destinato alle corse dotato di telaio Isotta Fraschini e di un motore Coventry: al volante di questo veicolo Lionel conquista la cronoscalata Londra-Aston Clinton e per questo motivo viene deciso di usare il nome Aston Martin per battezzare il neonato brand.La prima vettura della Casa “british”, la Coal Scuttle, vede la luce nel 1915: si tratta di una scoperta biposto dotata di un propulsore 1.4 a quattro cilindri. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, però, blocca tutte le attività dei due imprenditori e i loro macchinari vengono requisiti dal governo per essere destinati a scopi bellici.L’addioIl conflitto lascia cicatrici profonde nell’Aston Martin: la crisi economica impedisce di trovare i fondi necessari per investire in nuovi modelli e per questa ragione Robert Bamford decide di abbandonare l’attività nel 1920. Scompare nel 1942.

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Alpine A110: la prima regina dei rally

La Alpine A110 è una delle auto da rally più famose: ha conquistato il primo Mondiale WRC di sempre (nel 1973) ma ha anche ottenuto altre vittorie prima e dopo questo trionfo. Scopriamo insieme la sua storia.Alpine A110: la storiaLa versione di serie della Alpine A110 nasce nel 1961 per rimpiazzare la A108: contraddistinta, come l’antenata, da un design seducente e aggressivo (in particolar modo nel frontale), condivide numerosi elementi meccanici con la Renault 8.Estremamente leggera (merito della carrozzeria in vetroresina) e quindi agilissima nelle curve lente, non è molto facile da guidare per via della configurazione “tutto dietro” (motore e trazione). Solo i piloti più talentuosi a partire dal 1964 (anno del debutto nelle corse) riescono ad ottenere il meglio da lei, soprattutto nelle gare su asfalto (ma non solo).Il primo motore montato dalle Alpine A110 da gara è un 1.1 da 60 CV (successivamente portati a 86) derivato da quello della Renault 8 Major mentre nel 1968 debuttano i 1.3 e i 1.4 (con potenze fino a 110 CV). Due anni più tardi è la volta delle mitiche 1.6 (propulsore derivato da quello della Renault 16 con potenze fino a 155 CV), leggermente più pesanti e con il radiatore spostato nella parte anteriore.Nel 1973 – anno in cui la Casa transalpina viene acquistata dalla Renault, che incrementa il budget destinato al motorsport – vengono lanciate le versioni 1800 (175 CV), destinate esclusivamente alle corse e anticipate da alcuni prototipi 1.860 portati in gara l’anno prima.1964La Alpine A110 debutta in gara al Tour de Corse con il pilota francese Roger de Lageneste, che taglia il traguardo in settima posizione.1965L’anno del primo podio in un rally, ottenuto dal belga (nato in Italia) Mauro Bianchi (secondo, sempre in Corsica).1968Dopo un paio d’anni privi di risultati rilevanti arrivano i primi successi per la Alpine A110: il driver transalpino Jean Vinatier sale sul gradino più alto del podio al Rally Vltava (Cecoslovacchia) e alla Coppa delle Alpi. Jean-Claude Andruet conquista invece il Tour de Corse e diventa campione di Francia.1969Vinatier diventa campione francese grazie a due vittorie: Lione-Charbonnières e Coppa delle Alpi.1970Le Alpine A110, grazie al nuovo motore 1.6, iniziano a dominare nei rally. Jean Claude Andruet diventa campione europeo, Jean-Luc Thérier vince il Sanremo e l’Acropoli mentre Bernard Darniche trionfa al Tour de Corse.1971La Casa francese conquista il Campionato Internazionale Costruttori (antesignano del WRC) grazie a cinque vittorie: quattro ottenute dallo svedese Ove Andersson, ex Ford (Monte Carlo, Sanremo, Austria e Acropoli) e una di Darniche alla Coppa delle Alpi. Da non sottovalutare, inoltre, il ruolo di Jean-Pierre Nicolas: campione transalpino e vincitore del Rally di Ginevra e della Lione-Charbonnières (quest’ultima conquistata al volante di un prototipo dotato di un propulsore 1.860).1972Nessun successo rilevante ma tanti trionfi minori per la Alpine A110: il prototipo 1.860 (questa volta guidato da Andruet, sul gradino più alto del podio anche al Tour de Corse) vince nuovamente la Lione-Charbonnières, Nicolas conquista l’Olympia Rally in Germania e un esemplare con compressore condotto da Thérier prevale al Criterium des Cévennes.1973L’anno più importante per la sportiva transalpina si conclude con la conquista del primo Mondiale Rally della storia: la stagione si apre con una tripletta a Monte Carlo (Andruet, Andersson e Nicolas) e prosegue con i tre successi di Thérier (Portogallo, Acropoli e Sanremo), diventato oltretutto campione di Francia, e con Darniche davanti a tutti in Marocco. L’annata si chiude come si era aperta, con una tripletta: al Tour de Corse il podio è occupato da Nicolas, Jean-François Piot e Thérier.1974L’unico podio iridato per la Alpine A110 arriva al Tour de Corse grazie al secondo posto di Nicolas, vincitore però in Marocco.1975I migliori piazzamenti nel Mondiale rally sono due secondi posti conquistati dal greco “Siroco” Livieratos all’Acropoli e da Nicolas in Corsica. Nello stesso anno Jacques Henry si aggiudica il titolo francese.1976Nella sua ultima stagione importante la Alpine A110 abbandona le scene con un altro secondo posto, ottenuto sempre dall’ellenico “Siroco” nella gara di casa.

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BMW, la storia a quattro ruote della Casa bavarese

La BMW è la Casa automobilistica “premium” più amata nel mondo (almeno stando ai dati delle immatricolazioni relativi all’anno 2013). In 85 anni di carriera con le quattro ruote il marchio tedesco (fondato ufficialmente nel 1916 ma impegnato nella produzione di vetture dal 1929) ha saputo unire sportività e prestigio realizzando prodotti di qualità e ottenendo numerose vittorie sportive. Scopriamo insieme la sua storia.BMW: la storia a quattro ruoteLa BMW inizia a produrre motori aeronautici e motociclette e decide di ampliare il proprio business con l’assemblaggio di automobili alla fine degli anni Venti. Nel 1928 la Casa bavarese acquista il brand Dixi e l’anno seguente inizia a commercializzare con il proprio marchio l’unico modello realizzato da questa azienda: una Austin 7 assemblata su licenza ribattezzata 3/15.La vettura – dotata di un motore 750 a quattro cilindri in linea in grado di generare una potenza di 15 CV – è lunga solo tre metri e conquista numerosi clienti che cercano un mezzo dal prezzo non troppo elevato.Gli anni TrentaIn seguito alla scadenza del contratto con la Austin nel 1932 la BMW lancia il suo primo modello “fatto in casa”: la 3/20 – disponibile anche scoperta – è più grande dell’antenata e monta un motore 800 a quattro cilindri derivato da quello della Seven. L’anno seguente debutta la più elegante 303, la prima sei cilindri del marchio tedesco nonché la prima a poter vantare la mascherina con il “doppio rene”.Il 1936 è un anno importante per il brand teutonico: vedono infatti la luce la 326 (la prima dotata di porte posteriori) e, soprattutto, la sportiva 328, che tre anni più tardi conquista il rally RAC con il driver britannico Abiegeg Fane e nel 1940 si aggiudica la Mille Miglia con il pilota tedesco Huschke von Hanstein.La Seconda Guerra MondialeDurante la Seconda Guerra Mondiale la BMW si ritrova obbligata dal governo nazista ad abbandonare la produzione di auto (nel 1940) e di moto (nel 1942) per concentrarsi sui motori aeronautici, costruiti sfruttando spesso come manodopera i prigionieri dei campi di concentramento.Il dopoguerraAl termine del conflitto lo stabilimento di Monaco viene requisito dagli Alleati mentre le tre fabbriche situate nella parte orientale della Germania finiscono nelle mani dei sovietici. Dal 1946 al 1951 dall’impianto di Eisenach (Germania Est) escono modelli marchiati BMW basati su vetture costruite prima della guerra, oltre questa data – in seguito ad una battaglia legale vinta dalla BMW di Monaco, nuovamente autorizzata dal governo statunitense a produrre automobili e unica depositaria del marchio originale – vengono ribattezzati EMW.Gli anni CinquantaL’elegante berlina 501, svelata al Salone di Francoforte del 1951 e commercializzata dal 1952 – è la prima “vera” BMW del dopoguerra. Disponibile anche nelle varianti coupé e cabriolet, ha una gamma motori composta da due unità a sei cilindri (2.0 e 2.1) e da un 2.6 V8.Nella seconda metà del decennio debuttano due modelli molto diversi: nel 1955 tocca alla piccolissima Isetta (antesignana della Smart e variante rivista nella meccanica, ma non nel design, della citycar creata dalla Casa lombarda Iso) mentre l’anno successivo tocca alla spider 507, considerata ancora oggi una delle vetture tedesche più belle della storia.Tempi di crisiAlla fine degli anni Cinquanta la BMW è in crisi profonda (l’unico modello di successo, la Isetta, non genera profitti) e si pensa addirittura alla fusione dell’azienda con la Mercedes. La situazione cambia, in meglio, quando la famiglia Quandt (ancora oggi proprietaria della Casa bavarese) prende possesso della società, non senza rischi.Aria di ripresaNel giro di pochi anni il brand tedesco si riprende: nel 1961 vede la luce la 1500, nel 1963 vengono pagati (per la prima volta dal secondo dopoguerra) i dividendi agli azionisti e nel 1966 acquista il marchio Glas. Questa operazione finanziaria consente alla BMW di avere accesso ai brevetti di questa casa automobilistica e, soprattutto, allo stabilimento di Dingolfing (attualmente il più grande tra tutti quelli del colosso bavarese).Gli anni SettantaImpossibile parlare degli anni Settanta in BMW senza nominare Eberhard von Kuenheim: quest’uomo, nominato amministratore delegato nel 1970, trasforma in breve tempo la Casa tedesca in un’azienda globale e sotto la sua direzione nascono modelli destinati ad ottenere un grandissimo successo: la serie 5 (1972), la serie 3 (1975), la serie 6 (1976) e la serie 7 (1977).Nella seconda metà del decennio arriva la prima vittoria sportiva rilevante: nel 1976 una 3.0 CSL guidata dai britannici John Fitzpatrick e Brian Redman e dallo statunitense Peter Gregg conquista la 24 Ore di Daytona.Gli anni Ottanta e NovantaNegli anni Ottanta la BMW rafforza il proprio DNA sportivo attraverso il lancio di modelli focalizzati sul piacere di guida e porta a casa parecchi successi. Nel 1983 il pilota brasiliano Nelson Piquet diventa Campione del Mondo di F1 con una Brabham dotata di un propulsore bavarese mentre due anni più tardi nascono due vetture destinate alla grandezza: la M3 e la M5.La versione più cattiva della serie 3 conquista immediatamente gli automobilisti alla ricerca di un mezzo sportivo utilizzabile tutti i giorni e domina nel motorsport, specialmente tra le vetture Turismo: nel 1987 il nostro Roberto Ravaglia si aggiudica il campionato del mondo, il belga Eric van de Poele conquista il titolo tedesco DTM e il francese Bernard Béguin trionfa nei rally salendo sul gradino più alto del podio al Tour de Corse. Degno di nota anche il campionato DTM portato a casa da Ravaglia nel 1989.Nei primi anni del decennio successivo arrivano due titoli britannici per la BMW, sempre nella categoria Turismo BTCC (1991 e 1993). La più grande soddisfazione “racing” di questo periodo risale però al 1999 con il trionfo alla 24 Ore di Le Mans della V12 LMR (realizzata in collaborazione con la Williams) guidata dal francese Yannick Dalmas, dal nostro Pierluigi Martini e dal tedesco Joachim Winkelhock.Per quanto riguarda la produzione di serie della Casa tedesca negli anni Novanta segnaliamo l’acquisto del gruppo Rover nel 1994 (ceduto nel 2000 – conservando solamente il redditizio brand Mini – dopo sei anni poveri di soddisfazioni) e il lancio di tre modelli particolarmente rilevanti: le spider Z3 (1996) e Z8 (1999) e, sempre nel 1999, la X5.Il presenteL’inizio del terzo millennio per la BMW coincide con il debutto dei primi modelli disegnati da Chris Bangle: lo stile del designer americano contribuisce a svecchiare il marchio e ad incrementare le immatricolazioni ma non tutti apprezzano le forme di alcune vetture. Una su tutte l’ammiraglia serie 7 E65 del 2001.Nel 2002 il marchio Rolls-Royce entra a fare parte della famiglia mentre nella seconda metà del decennio la dirigenza decide di tornare nuovamente nel mondo del motorsport. Dal 2006 al 2010 la Casa bavarese gareggia in F1 come costruttore con il nome BMW Sauber (in seguito all’acquisizione della scuderia elvetica) e tra il 2005 e il 2007 arrivano ben sei Mondiali Turismo WTCC (tre Piloti e tre Marche) con una 320 guidata dal britannico Andy Priaulx.Gli ultimi anni sono caratterizzati da pochi trionfi sportivi (il canadese Bruno Spengler vincitore del campionato turismo tedesco DTM nel 2012 con una M3) e da tanta ricerca ingegneristica: nel 2013 debutta la piccola elettrica i3 mentre l’anno successivo è la volta della supercar ibrida plug-in i8.

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Subaru Outback (1999): station wagon o SUV?

La Subaru Outback è una station wagon rialzata o una SUV più bassa delle rivali? A quindici anni dal debutto sul mercato della prima generazione – nel 1999 – è ancora difficile dare una risposta definitiva. La prima serie della familiare nipponica a trazione integrale si trova senza problemi a circa 2.000 euro ed è un mezzo perfetto per chi cerca un veicolo affidabile e robusto.Subaru Outback (1999): le caratteristiche principaliLa Subaru Legacy Outback (questo il nome ufficiale al lancio) non è altro che una variante della Legacy station wagon contraddistinta dall’assetto rialzato e da un aspetto più rustico ottenuto grazie alla presenza di protezioni in plastica grezza. Debutta ufficialmente nei listini italiani nel 1999, cambia nome in Outback due anni più tardi e abbandona le scene intorno alla fine del 2003 per lasciare spazio alla seconda generazione.Caratterizzata da uno stile moderno ancora oggi gradevole, è ricca di punti di forza (affidabilità del motore e delle altre componenti meccaniche in primis) ma non mancano i lati negativi: la plancia è realizzata con plastiche rigide – però robuste e ottimamente assemblate – e in caso di guasti non è facile trovare un’officina in grado di metterci le mani che sia anche economica.La tecnicaIl motore al lancio della Subaru Legacy Outback è un 2.5 quattro cilindri boxer (cilindri contrapposti, una soluzione tecnica raffinata che consente di abbassare il baricentro) da 156 CV abbinato ad un cambio automatico a quattro rapporti. Alla fine del 2000 viene affiancato da un più potente 3.0 – sempre boxer e sempre con trasmissione automatica – a sei cilindri da 209 CV. Il cambio manuale viene introdotto nel 2001 ma solo sulle unità a quattro cilindri.Le quotazioniLa station wagon nipponica a trazione integrale non ha un futuro come auto d’epoca e per questo motivo le sue quotazioni, particolarmente basse (2.000 euro), non sono destinate a salire. Questa vettura ha comunque un discreto interesse storico visto che è la prima generazione di uno dei modelli più apprezzati della Casa delle Pleiadi.

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Tec-Mec F415: la meteora della F1

Alla fine degli anni Cinquanta la Tec-Mec F415 cercò di ritagliarsi un proprio spazio nel mondo della F1, senza però riuscirci. Questa monoposto tricolore, evoluzione della Maserati 250F (una delle vetture più vincenti del Circus) realizzata dallo storico progettista del Tridente Valerio Colotti, disputò un solo GP nel 1959. Scopriamo insieme la storia di questa meteora del motorsport.Tec-Mec F415: la storiaLa storia della Tec-Mec F415 inizia nel 1957, quando la Maserati decide di ritirarsi ufficialmente dal mondo delle competizioni. Uno dei più importanti progettisti della Casa modenese – Valerio Colotti – si ritrova senza lavoro e decide quindi di realizzare una monoposto di F1 usando come base la mitica 250F, vettura capace di conquistare due Mondiali (nel 1954 e nel 1957 con Juan Manuel Fangio), otto vittorie e otto pole position.Grazie all’aiuto finanziario dello statunitense Lloyd Casner, proprietario del team Camoradi, crea lo Studio Tecnica Meccanica (da qui il nome Tec-Mec) e perfeziona la vettura conservando il motore 2.5 a sei cilindri in linea e intervenendo soprattutto sulla riduzione del peso.Il debutto in F1La Tec-Mec F415 prende parte al GP degli USA del 1959 sul circuito di Sebring con il pilota brasiliano Fritz d’Orey: il driver sudamericano si qualifica al 17° posto su 19 partecipanti con un ritardo di oltre 33 secondi dal poleman Stirling Moss e in gara, dopo una buona partenza (12° al termine del primo giro), sale rapidamente la classifica fino ad arrivare in decima posizione alla sesta tornata prima di ritirarsi per una perdita d’olio.L’addio al CircusIn seguito al risultato deludente ottenuto negli States Valerio Colotti decide di mollare tutto: vende la società e si concentra esclusivamente sulle trasmissioni, fornendo cambi alle scuderie Lotus e BRM.

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Ferrari 156: la F1 bella e vincente

La Ferrari 156 non è solo una delle F1 più belle di sempre ma anche una delle più vincenti. Nella prima metà degli anni Sessanta questa monoposto ha rivoluzionato il Circus conquistando tre titoli iridati (tra cui i primi due Mondiali Costruttori della Scuderia di Maranello) e mettendo fine allo strapotere dei team britannici. Scopriamo insieme la sua storia.Ferrari 156: la storiaIl progetto della 156 prende forma a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60: le monoposto del Regno Unito, grazie al motore posteriore (che consente di ridurre il peso della trasmissione e di avere una migliore aerodinamica), dominano sui circuiti di tutto il mondo e costringono la Ferrari a puntare su questa nuova soluzione tecnica.Carlo Chiti si occupa di realizzare la vettura basandosi su due monoposto utilizzate l’anno precedente rivelatesi ancora poco competitive (la 246P e la 156P) e per quanto riguarda il motore decide di adattare alla F1 il già noto propulsore “Dino” 1.5 V6 (con angolo tra le bancate di 65°) da F2.Viene incrementato l’alesaggio e ridotta la corsa mentre la scelta di adottare una nuova testata sulla Ferrari 156 consente di aumentare la potenza da 180 a 185 CV. Nello stesso tempo viene sviluppato un altro propulsore con l’aiuto di Mauro Forghieri: un altro 1.5 V6 con angolo di 120° più leggero e più potente (190 CV). Il caratteristico frontale “shark nose” (a muso di squalo) della monoposto emiliana è composto da due enormi prese d’aria che hanno il compito di raffreddare il radiatore, montato in posizione anteriore.1961La 156 debutta in gara il 14 maggio 1961 al GP di Monaco e occupa due gradini del podio con due piloti statunitensi: Richie Ginther (2°) e Phil Hill (3°). Il primo successo arriva una settimana dopo in Olanda con il tedesco Wolfgang von Trips (trionfatore anche in Gran Bretagna e deceduto a Monza) mentre è Hill a conquistare il Mondiale Piloti grazie a due vittorie in Belgio e in Italia. Degno di nota anche l’exploit di Giancarlo Baghetti, sul gradino più alto del podio in Francia nel suo primo GP disputato. Grazie a questi risultati la Ferrari conquista il primo Mondiale Costruttori della sua storia.1962Lo sviluppo della 156 subisce un brusco arresto quando Carlo Chiti abbandona la Ferrari per fondare la ATS. La monoposto porta al debutto un nuovo cambio a sei marce anziché cinque ma non riesce ad essere competitiva come l’anno precedente: nessuna vittoria e solo quattro podi. Il miglior piazzamento arriva da Hill, secondo a Monte Carlo.1963Nonostante l’età “avanzata” la monoposto del Cavallino si rivela più convincente rispetto alla stagione precedente: i podi totali sono solo tre ma arriva una vittoria con John Surtees in Germania.1964Nell’ultimo anno di attività la Ferrari 156 continua a stupire con Lorenzo Bandini, terzo in Austria e sul gradino più alto del podio in Austria. Grazie anche a questi risultati arriva il secondo Mondiale Costruttori per la Rossa.

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AMC Pacer (1975): una compatta per gli USA

La AMC Pacer, nata nel 1975, è una delle auto più controverse mai realizzate negli USA. Questa vettura, che tentò di convertire gli automobilisti “yankee” alle compatte, era ricca di spunti interessanti ma anche piena di difetti. Molti la considerano un “bidone” – un equivalente a stelle e strisce della nostra Fiat Duna – ma chi ha avuto modo di possederla e di guidarla la rimpiange. Scopriamo insieme la storia di questo modello, facilmente rintracciabile oltreoceano e con quotazioni tutt’altro che elevate: 5.000 euro.AMC Pacer (1975): la storiaIl progetto della Pacer – presentata nel 1975 – vede la luce nel 1971 quando la dirigenza AMC (marchio scomparso alla fine degli anni Ottanta), “fiutando” il possibile incremento dei prezzi dei carburanti, decide di realizzare una compatta a trazione posteriore in grado di soddisfare le esigenze di spazio della clientela statunitense.Il modello viene quindi disegnato partendo dall’abitacolo – ampio quanto quello di una berlina tradizionale, questo spiega la larghezza di quasi due metri – e riducendo il più possibile gli ingombri esterni. Il risultato? Una “segmento C” a tre porte (due più portellone) lunga meno di quattro metri e mezzo contraddistinta da uno stile originale, specialmente nella zona posteriore (dove spicca un enorme parabrezza). Per agevolare l’accesso ai sedili posteriori la portiera del lato passeggero è oltretutto più lunga di 10 centimetri di quella destinata al guidatore mentre il bagagliaio potrebbe essere più capiente.Comoda nei lunghi viaggi come solo le auto americane sanno essere, la AMC Pacer offre anche un piacere di guida superiore alle sue connazionali: merito soprattutto di uno sterzo decisamente più comunicativo di quello delle altre proposte realizzate negli USA in quegli anni. Poco convincente la qualità costruttiva: la plancia ha uno stile moderno ma presenta assemblaggi poco curati ed è difficile trovare esemplari con plastiche non rovinate dalla luce solare (abbondante considerando le ampie superfici vetrate).Nonostante le dimensioni esterne tutt’altro che ingombranti (fatta eccezione per la larghezza) la compatta a stelle e strisce è decisamente pesante: colpa dei motori dalla cubatura considerevole e di diversi accorgimenti adottati per migliorare la sicurezza come i paraurti voluminosi, i pannelli porta rinforzati e persino un roll-bar integrato.La gamma della AMC Pacer si allarga nel 1977 con l’arrivo di una più versatile variante station wagon (dal design più squadrato e più lunga di 13 centimetri) mentre l’anno successivo il frontale assume forme più tradizionali.La tecnicaLe ragioni del fallimento della AMC Pacer sono da ricercarsi soprattutto nella gamma motori: inizialmente progettata per accogliere un propulsore rotativo e successivamente ritrovatasi senza neanche la possibilità di poter adottare unità compatte General Motors, è obbligata ad accogliere al lancio un ingombrante 3.8 a sei cilindri in linea da 91 CV, tutt’altro che parco.Nel 1976 arriva un più prestante 4.2 – sempre a sei cilindri – da 112 CV mentre in occasione del restyling del 1978 – che porta un vano motore più ampio – si aggiunge un 5.0 V8.Le quotazioniLe quotazioni della AMC Pacer si aggirano intorno ai 5.000 euro e non è difficile trovare negli USA modelli disponibili a queste cifre. La compatta “yankee” rappresenta, nel bene e nel male, un pezzo di storia dell’automobilismo americano: ha dimostrato agli statunitensi che non è necessario avere un’auto grande per stare comodi e solo l’avvento delle più parche rivali giapponesi ha causato la sua fine.

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Cisitalia 202 Berlinetta (1947): la più bella sei tu

La Cisitalia 202 Berlinetta entra di diritto nella "top ten" delle più belle auto d’epoca italiane. La coupé piemontese è talmente affascinante che da oltre sessant’anni (dal 1951, per la precisione) è esposta al MoMA (Museum of Modern Art) di New York: un simbolo su quattro ruote del nostro stile.Elegante, rarissima (prodotta in soli 220 esemplari) ed estremamente costosa (le quotazioni recitano 200.000 euro): un pezzo da collezione irrinunciabile per chi ha a disposizione un budget consistente.Cisitalia 202 Berlinetta (1947): le caratteristiche principaliLa Cisitalia 202 Berlinetta nasce dal sogno dell’imprenditore piemontese Piero Dusio, considerato negli anni Quaranta l’uomo più ricco di Torino dopo Agnelli. Viene progettata nei ritagli di tempo da Dante Giacosa – il creatore della Fiat 500 – e disegnata da Alfredo Vignale e Giovanni Savonuzzi, anche se i ritocchi fondamentali vengono effettuati da Pininfarina.La prima generazione – presentata a Milano in occasione del GP d’Italia del 1947 e conosciuta come Gran Sport – ha due posti secchi ed è la prima auto della storia ad avere il nome del marchio anche sulla coda. Estremamente leggera e dotata di freni eccellenti (anche se difficili da raffreddare per via dei copriruota aerodinamici presenti fino al 1950) e di una grande agilità nelle curve, ha come principale difetto lo sterzo, esageratamente duro alle basse velocità.La prima evoluzione della Cisitalia 202 Berlinetta – la 202 B – può invece accogliere quattro persone (tre davanti e una, male, dietro) e si distingue esteticamente dalla Gran Sport per la mascherina più massiccia con 17 barre verticali in ottone cromate e sei listelli orizzontali disposti dietro, per i paraurti cromati e per le luci di direzione che prendono gradualmente il posto delle frecce estraibili. Nella plancia spicca invece una griglia cromata che nasconde la radio, il posacenere e l’accendisigari.La 202 C del 1951 può invece vantare il cofano per il bagagliaio (prima raggiungibile solo dall’abitacolo) e il lunotto posteriore più ampio per migliorare la visibilità. Spariscono i copriruota aerodinamici, che lasciano spazio alle ruote a raggi Borrani. La 202 L (prodotta in meno di cinque esemplari) si differenzia per il passo allungato di una ventina di centimetri e per la possibilità di accogliere comodamente quattro passeggeri.La tecnicaLa Cisitalia 202 Berlinetta è la prima auto di serie a montare un telaio tubolare a traliccio: una soluzione – derivata dalla monoposto da corsa D46 realizzata sempre dalla Casa torinese l’anno prima – più costosa da produrre dei longheroni ma più leggera, più rigida e meno soggetta a vincoli tecnici.Nonostante si tratti di un’auto pregiata la sua base tecnica non è delle più raffinate: il motore 1.1 derivato da quello della Fiat 1100 – 50 CV per la Sport (165 km/h di velocità massima), 60 CV per la Sport Special (170 km/h) e 65 CV per la Mille Miglia (175 km/h) – è infatti sottodimensionato per la vettura. Dalla 1100 arrivano anche i freni mentre lo sterzo e la sospensione anteriore a balestre traversali provengono dalla Topolino.In occasione dell’arrivo della 202 B la Cisitalia 202 Berlinetta beneficia di modifiche allo sterzo (che resta comunque troppo rigido) e alle sospensioni posteriori (dotate di un unico ammortizzatore anziché due).Le quotazioni200.000 euro sono un prezzo giusto per entrare in possesso di una Cisitalia 202 Berlinetta. Trovarla non è semplice, anche se ogni tanto qualche casa d’aste la propone. Il suo valore è destinato ad aumentare sempre di più con il passare degli anni: un investimento garantito.

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