Category Archives: Auto Classiche

Porsche: la storia e la prova dei modelli Transaxle

Per molti Porsche è sinonimo di 911. I cambiamenti, talvolta, sono percepiti come un’eresia. E non tutte le evoluzioni nella storia di Porsche sono state accolte con entusiasmo dai suoi fan. Il passaggio dal raffreddamento ad aria al raffreddamento a liquido introdotto sulla 996, tanto per restare nel mondo 911, è stato oggetto di forti critiche a suo tempo, come pure l’arrivo in gamma di una SUV nel 2003, e, pochi anni dopo, l’introduzione di un motore Diesel, prima sulla Cayenne e poi sulla Panamera. Prima di tutto questo ad essere sotto attacco furono i modelli con schema Transaxle. Che in qualche caso si sono rivelati un vero e proprio successo. Soprattutto agli esordi.Lo schema TransaxleIl cambiamento avvenne nel 1976, anno di lancio della Porsche 924, la prima del marchio ad adottare lo schema Transaxle. Una sportiva che ha portato delle grandi novità in Casa Porsche, a cominciare dall’architettura del gruppo cambio-differenziale: il motore è sotto il cofano anteriore mentre il cambio si trova sull’asse posteriore. Uno schema che equilibra perfettamente la distribuzione dei pesi tra i due assi, dato che il gruppo cambio-differenziale, dopo il motore, è la componente che ha il peso maggiore.Allo stesso tempo si ottiene un albero di trasmissione più leggero, perché viene sollecitato di meno: la coppia massima che deve trasmettere è quella del motore e non quella in uscita dal cambio. Alcune vetture Transaxle hanno avuto problemi di manovrabilità del cambio, ma non è il caso delle vetture appartenenti alla collezione del Porsche Museum che ho avuto l’onore di guidare.Porsche 924La Porsche 924, lanciata nel 1976, fu la prima ad avere lo schema Transaxle e il raffreddamento a liquido. Venne criticata non poco per avere alcune parti in comune con vetture del gruppo Volkswagen, per il suo design insolito e per le prestazioni non all’altezza del marchio (il suo 4 cilindri erogava 122 CV). Insomma, la 924 sembrava segnata già in partenza, un po’ come fu con la 914.La baby Porsche, invece, si rivelò un modello di grande successo, tanto che diventò un bestseller. Un modello d’ingresso di conquista, per appassionati che molto probabilmente non si sarebbero potuti permettere la 911. La 924 era un’auto pratica, con dimensioni compatte e un bagagliaio discretamente spazioso; aveva un bilanciamento dei pesi perfetto – al contrario della 911 – e una guidabilità interessante. Non ultimo, aveva un prezzo competitivo: in Germania costava poco più di 23.000 marchi. La produzione della prima Porsche con motore anteriore raffreddato a liquido e schema Transaxle finì nel 1988 con la 924 S, ma la versione più speciale – che ho guidato – è la 924 Carrera GT, di cui furono realizzati solo 406 esemplari.La 924 Carrera GT arriva direttamente dal Porsche Museum. Si tratta di un modello del 1980, ha un aspetto mascolino e sfacciato che si manifesta in primis con la presa d’aria sul cofano, e il suo motore 2.5 4 cilindri eroga 210 CV. L’assenza del servosterzo regala un grande feeling ai polpastrelli delle dita, ma nelle curve più strette richiede braccia robuste. Anche la frizione è pesante, così come richiede un certo sforzo il cambio con prima in basso a sinistra. Il turbo della Carrera GT sonnecchia fino a circa 3.000 giri, poi all’improvviso si risveglia con una prorompenza tipica dei turbo degli anni Ottanta capace di incollarti al sedile. È impegnativa, l’avrete capito, ma ha un fascino incredibile. Anche quando è ferma.Porsche 944Nel 1981 venne lanciata la 944, che rispetto alla 924 riuscì a farsi considerare una vera Porsche, anche per la potenza del suo 4 cilindri aspirato di 163 CV. Il successo arrivò in fretta (ne furono prodotte più di 163 mila), e la Casa estese la gamma: arrivarono la 944 Cabrio, la 944 S, la 944 S2 e la 944 Turbo.La 944 Turbo S del 1987 ha 210 CV proprio come la 924 Carrera GT, ma il suo carattere è diverso, mitigato dal progresso. Gli interni hanno fatto grandi passi avanti, c’è il servosterzo, il cambio è nettamente più morbido e i rapporti entrano facilmente, con il giusto contrasto. Più facile e più confortevole della 924, la 944 Turbo è paciosa finché il manometro della sovralimentazione segna 2 bar, situazione che si verifica dopo aver superato i 3.000 giri, come tipico dei “vecchi” turbo. Guidandola a bassa velocità sa essere una buona compagna di viaggio, comoda e maneggevole.Porsche 968La Porsche 968 rappresenta il canto del cigno dell’era Transaxle. Prodotta tra il 1991 e il 1995, monta un 4 cilindri di 3.0 litri, che con i suoi 240 CV e 305 Nm era il più potente motore 4 cilindri aspirato al mondo. In sostanza si tratta dell’evoluzione della 944, con tanta tecnologia in più – dalle quattro valvole per cilindro al sistema Variocam di controllo di fasatura delle valvole – ma un prezzo pericolosamente vicino alla osannata sorella, ovvero la 911. Forse è proprio per questo che ne sono state vendute poco più di 11 mila unità.Alla guida si sentono i benefici dell’evoluzione: la Porsche 968 è maneggevole, veloce, con un handling sopraffino – il “nostro” esemplare è dotato di un differenziale autobloccante – e una frenata potente. Te la senti cucita addosso, infonde sicurezza e allo stesso tempo trasmette emozioni. Il cambio, lo sterzo, i freni, tutti i comandi fondamentali della guida sono semplicemente di un altro livello. Tanto che se dovessi scegliere un modello Transaxle da mettermi in garage non avrei dubbi: sarebbe proprio lei, la 968 3.0 4 cilindri da 240 CV.Porsche 928Questo modello nacque per sostituire la 911. Come ben sappiamo le cose andarono diversamente,  ma la Porsche 928 rimase in produzione dal 1977 a 1995. In 18 anni ne vennero prodotte poco più di 61 mila. La 928 non è una sportiva dura e pura bensì una gran turismo: spaziosa, lussuosa, con interni curati e un poderoso V8 sotto il cofano da 4.5 litri. Anche facile e intuitiva da guidare, infonde una grande fiducia tra le curve nonostante la mole imponente e un assetto votato al comfort. La 928 era l’auto giusta per i grandi viaggi in compagnia, poco stancante e allo stesso tempo in grado di soddisfare le velleità corsaiole del suo fortunato proprietario. Il poderoso V8 da 300 CV della 928 S messa a disposizione dal Porsche Museum è capace di riprendere in quinta già dai 1.200 giri senza battere ciglio, con un suono pieno ma vellutato che riempie le orecchie in modo gentile. È solerte ad ogni pressione del gas e ha un range d’utilizzo invidiabile, ma non aspettatevi una spinta rabbiosa, il V8 non diventa mai aggressivo. Per chi ama i calci nella schiena esistono i 4 cilindri turbo.Nota dolente, un cambio poco preciso, e soprattutto con una corsa che definire lunga è un’eufemismo. Gran ferro, la 928. L’unica gran turismo nonché l’unica Porsche ad avere vinto il premio “Auto dell’Anno” – correva l’anno 1978.  Ma quello che conta davvero è l’apprezzamento del pubblico, e chi entrava nelle concessionarie Porsche preferiva quasi sempre l’iconica 911. Che evidentemente non era affatto da sostituire.
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Buick Skylark (1954): un mito per l’estate

La Buick Skylark del 1954 è una delle cabriolet statunitensi più esclusive di sempre: per averla bisogna sborsare almeno 100.000 euro (e recarsi negli USA perché qui è introvabile).Buick Skylark (1954): le caratteristiche principaliLa Buick Skylark del 1954 rappresenta un netto passo indietro rispetto alla versione del 1953: la base tecnica, infatti, non è più condivisa con la Roadmaster e la Super ma è la stessa delle meno pregiate Century e Special. Il risultato? Dimensioni esterne più compatte e un peso ridotto che migliorano il comportamento stradale ma anche un abitacolo (in grado di ospitare quattro persone) più angusto.Il design – più semplice nella zona anteriore – presenta una coda più elaborata impreziosita da voluminose pinne cromate. Il pubblico non l’apprezza (colpa dei prezzi alti e della piattaforma meno nobile) e la produzione viene interrotta dopo solo un anno.Buick Skylark (1954): la tecnicaIl motore della Buick Skylark del 1954 è identico a quello della variante del 1953: un 5.3 V8 con potenze comprese tra 145 e 190 CV.Buick Skylark (1954): le quotazioniLe quotazioni della Buick Skylark del 1954 sono alte (130.000 euro) ma in realtà per portarsi a casa un esemplare ben tenuto – abbastanza semplice da trovare negli USA – “sono sufficienti” 100.000 euro. Tra tutte le Skylark realizzate in questi anni solo la prima serie del 1953 vale di più.
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Pneumatici per auto d’epoca: tanta scelta per le Porsche

Trovare gli pneumatici adatti ad un’auto d’epoca non è semplice, a meno che non si possegga una “storica” firmata Porsche. Esistono infatti ben 2.200 raccomandazioni (qui l’elenco completo) per tutti i tipi di gomme Classic omologate dalla Casa tedesca e destinate alle sportive Oldtimer e Youngtimer del marchio di Zuffenhausen. Non tutti sanno che circa il 70% di tutte le vetture costruite finora dal brand di Stoccarda è ancora in circolazione.Porsche ha sviluppato, testato e approvato numerosi pneumatici contraddistinti dall’indice di specifica N che attesta l’omologazione del marchio teutonico. Non si tratta di riedizioni di modelli storici ma di gomme moderne con un design che strizza l’occhio al passato. La composizione del materiale ne garantisce le migliori proprietà in termini di trazione e resistenza, la struttura portante corrisponde a quella delle carcasse delle gomme attuali e anche per la mescola si sfruttano gli additivi utilizzati nella tecnologia degli pneumatici di oggi. In sintesi i nuovi pneumatici Classic uniscono un’ottima aderenza ad un buon valore di resistenza al rotolamento e soddisfano tutti i criteri di omologazione delle attuali normative UE.Nella messa a punto degli pneumatici Classic Porsche i collaudatori della Casa tedesca hanno collaborato con il pilota tedesco Walter Röhrl (due volte campione del mondo rally nel 1980 e nel 1982). Nell’attuale serie di test oltre agli pneumatici Pirelli CN36 erano disponibili anche i Pirelli P7 e P Zero Rosso. Oltre alle gomme per vetture Oldtimer e Youngtimer adatte al normale impiego su strada Porsche ha anche sviluppato coperture speciali per le auto storiche da corsa come i P Zero Trofeo R (concepite come semi slick e proposte in dimensioni che variano dai 16 ai 18 pollici).
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Renault RS10, la prima F1 turbo vincente

La Renault RS10 è una delle monoposto che hanno fatto la storia della F1: grazie alla vittoria nel GP di Francia 1979 questa vettura è stata infatti la prima auto sovralimentata a conquistare una gara nel Circus.Renault RS10: la storiaLa Renault RS10 – creata per correre nel Mondiale F1 1979 – è un’evoluzione “effetto suolo” della prima monoposto della Régie (la poco affidabile RS01) che si distingue dall’antenata per il motore 1.5 V6 con due turbo anziché uno. Una scelta che consente di risparmiare spazio e di ridurre il turbo lag.La vettura transalpina debutta in gara il 29 aprile 1979 in occasione del quinto GP stagionale – quello di Spagna – con il pilota francese Jean-Pierre Jabouille ma è costretta al ritiro così come nella gara successiva in Belgio. Taglia per la prima volta il traguardo a Monte Carlo con Jabouille (8°) nel giorno in cui viene guidata per la prima volta anche dal compagno di scuderia René Arnoux.La vittoria a DigioneLa Renault RS10 entra nella storia della F1 quando si aggiudica con Jabouille il GP di Francia sul circuito di Digione: la prima monoposto turbo di sempre a vincere una gara iridata, la prima vittoria in Francia di un’auto tutta francese (pilota, pneumatici Michelin e benzina Elf) e l’unica corsa terminata da entrambi i driver della Régie.Un successo oscurato dallo storico duello tra l’altra Renault di Arnoux e la Ferrari del canadese Gilles Villeneuve per il secondo posto. Prevarrà il pilota della Rossa.Gli ultimi GPIl resto del Mondiale F1 1979 vede una Renault RS10 veloce in qualifica (altre quattro pole dopo quella di Digione: Jabouille in Germania e in Italia, Arnoux in Austria e in Olanda) ma poco affidabile sulle lunghe distanze. Arnoux riesce a portare a casa altri due secondi posti: uno in Gran Bretagna e uno negli USA Est, ultima gara della stagione e ultima apparizione di una delle monoposto più famose nella storia del Circus.
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Jarno Trulli, l’ultimo pilota italiano di F1 (per ora)

Jarno Trulli può essere considerato (per ora) l’ultimo pilota italiano di F1 (l’ultimo a tagliare il traguardo di una gara, nell’ormai lontano 2011). Scopriamo insieme la storia del driver abruzzese, uno dei kartisti più brillanti di sempre nonché l’unico italiano (insieme a Riccardo Patrese) ad aver vinto il GP di Monaco.Jarno Trulli: la storiaJarno Trulli nasce il 13 luglio 1974 a Pescara e a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 si fa notare nel motorsport come uno dei più grandi kartisti di tutti i tempi. Tre titoli italiani 100 consecutivi dal 1988 al 1990, vincitore del Torneo delle Industrie 1988 davanti a Giancarlo Fisichella e vicecampione del mondo Junior A 1990.Nel 1991 in Formula K diventa campione del mondo e arriva terzo nel campionato europeo dietro a Fisichella e due anni più tardi (oltre a debuttare con le monoposto nel campionato italiano di F3) termina in seconda posizione il Mondiale Formula Super A e in terza la coppa del mondo Formula A (sempre dietro “Fisico”).Le vittorie di Jarno Trulli con i kart continuano senza sosta: nel 1994 diventa iridato Formula C e campione nordamericano ed europeo Formula Super A e nello stesso anno si cimenta nel campionato britannico di F3. Il 1995 è l’anno del trionfo in Coppa del Mondo Super A (e del terzo posto nella serie continentale) e del titolo europeo 100 International. Il pilota abruzzese prova inoltre la F3 tedesca e arriva secondo nel prestigioso GP di Macao dietro a Ralf Schumacher e davanti allo spagnolo Pedro de la Rosa.Nel 1996 Jarno conquista il campionato tedesco di F3 (3° il teutonico Nick Heidfeld) e termina in terza posizione anche il GP di Macao vinto dall’irlandese Ralph Firman.Il debutto in F1Jarno Trulli debutta in F1 con la Minardi nel 1997: porta a casa due noni posti in Australia e in Argentina e fa meglio del compagno giapponese Ukyo Katayama. Il pilota pescarese viene chiamato dalla Prost per rimpiazzare il transalpino Olivier Panis (reduce da un pauroso incidente in Canada nel quale riporta la frattura di entrambe le gambe) e sorprende tutti con il quarto posto in Germania (primi punti in carriera) surclassando il coéquipier nipponico Shinji Nakano.Nell’ultimo GP disputato quell’anno – in Austria – Trulli riesce addirittura a stare in testa nei primi 37 giri dopo essere partito dalla seconda fila ma è costretto al ritiro a tredici tornate dalla fine per un’avaria al motore.Jarno Trulli affronta la prima stagione completa con la Prost nel 1998 con una monoposto meno competitiva di quella dell’anno precedente (meglio di Panis ma un solo punto conquistato grazie ad un sesto posto in Belgio). La situazione migliora nel 1999: più veloce di Panis, sesto in Spagna e primo podio in carriera grazie all’incredibile seconda piazza conquistata nel GP d’Europa al Nürburgring.Due anni in JordanIl trasferimento alla Jordan porta buoni risultati (più in qualifica che in gara): il miglior piazzamento stagionale nel 2000 è un quarto posto in Brasile ma per la prima volta arrivano meno punti di un compagno (il tedesco Heinz-Harald Frentzen). L’anno seguente arrivano due quarti posti in Spagna e in Italia e piazzamenti più convincenti di quelli ottenuti dai due compagni di scuderia (Frentzen e il francese Jean Alesi). In Canada e in Germania soffre però la presenza in squadra del brasiliano Ricardo Zonta.L’era RenaultIl 2002 è l’anno del trasferimento di Jarno Trulli alla Renault: la prima stagione è caratterizzata da due quarti posti a Monte Carlo e in Italia (peggio del compagno britannico Jenson Button) e anche l’anno seguente perde il confronto diretto col nuovo coéquipier (lo spagnolo Fernando Alonso) pur riuscendo a salire sul podio (3°) in Germania.La migliore annata di Trulli in F1 – nel 2004 – è anche quella più complicata. Terzo in Spagna, diventa il secondo (e per il momento) ultimo pilota italiano della storia a vincere a Monte Carlo (circuito nel quale ottiene anche la prima pole position in carriera) e porta a casa una seconda pole position in Belgio. Dopo 15 Gran Premi è quarto nel Mondiale davanti ad Alonso ma in seguito a contrasti con Flavio Briatore (all’epoca direttore esecutivo della scuderia francese) viene lasciato a piedi dal team.Gli anni in ToyotaJarno Trulli salta il GP della Cina 2004 e disputa le ultime due gare iridate con la Toyota: in Giappone arriva 11° davanti a Panis, in Brasile 12° davanti a Zonta.La prima stagione completa in F1 con la scuderia nipponica coincide con tre podi in quattro GP (secondo in Malesia e in Bahrein e terzo in Spagna) e con una pole position a Indianapolis. Negli USA non può però gareggiare in seguito alla decisione di Michelin – per motivi di sicurezza – di far rientrare ai box dopo il giro di ricognizione tutte le monoposto dotate di pneumatici francesi. Termina l’anno con meno punti di Ralf Schumacher.Anche nel 2006 Jarno Trulli (quarto negli USA) fa peggio del fratello di Michael ma riesce a superarlo l’anno successivo (miglior risultato un 6° posto, sempre negli States). Nel 2008, con una monoposto più competitiva, arriva 3° in Francia e fa meglio del collega tedesco Timo Glock e nel 2009 è protagonista di una stagione molto interessante: tre podi (secondo in Giappone e terzo in Australia e in Bahrein, gara nella quale ottiene la quarta e ultima pole in carriera e il primo e unico giro veloce nel Circus, l’ultimo per un driver italiano). Nelle ultime due gare col team del Sol Levante in Brasile e ad Abu Dhabi non convince quanto il coéquipier giapponese Kamui Kobayashi.Il declino con la LotusTrulli trova un sedile con la Lotus nel 2010 – scuderia tornata nel Circus (con licenza malese) dopo un’assenza di 16 anni – e ottiene risultati peggiori del compagno di team finlandese Heikki Kovalainen (miglior piazzamento: 13° in Giappone). Zero punti anche nell’ultimo anno in F1: 13° in Australia e a Monaco, meglio del collega scandinavo.La Formula ENel 2014 Jarno Trulli decide di tornare in pista come pilota e come proprietario di una scuderia che porta il suo nome nella prima edizione del campionato di Formula E destinato alle monoposto elettriche. Nella prima parte della stagione fa meglio della compagna di scuderia Michela Cerruti e conquista un quarto posto a Putrajaya in Malesia (miglior risultato in carriera in questo campionato) ma poi soffre la presenza dei nuovi coéquipier Vitantonio Liuzzi e dell’elvetico Alex Fontana.Nella stagione 2015/2016 – quella nella quale Jarno annuncia il ritiro da pilota – la scuderia Trulli prende la licenza svizzera ma il team – dopo aver saltato le prime due corse stagionali – abbandona ufficialmente la serie.
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Dante Giacosa, il papà della 500 (ma non solo)

Dante Giacosa è noto per essere stato il papà della Fiat 500 ma nel corso della sua carriera è stato il responsabile della progettazione di quasi tutte le auto della Casa torinese prodotte dal 1936 al 1970 (e non solo). Scopriamo insieme la sua storia.Dante Giacosa, la biografiaDante Giacosa è di origini piemontesi ma si ritrova a nascere a Roma (il 3 gennaio 1905) mentre il padre lavora come militare nella Capitale. Dopo essersi diplomato al liceo classico (un background culturale piuttosto insolito per un tecnico) si laurea in ingegneria meccanica – nel 1927 – al Politecnico di Torino.Gli esordiPoco dopo la laurea Dante viene assunto come disegnatore dalla Casa torinese SPA, acquistata l’anno prima dalla Fiat, e tre anni più tardi viene trasferito alla sezione motori del colosso piemontese. Nel 1933 viene nominato capo dell’ufficio tecnico automobili.Le prime autoLa Topolino del 1936 è la prima auto nata sotto la responsabilità di Dante Giacosa. Lo scoppio della guerra arresta lo sviluppo di modelli nuovi e al termine del conflitto l’ingegnere piemontese realizza per la Cisitalia l’auto da corsa D46, realizzata con componenti provenienti dalla 508B e dalla Topolino.Giacosa nel 1946 diventa direttore degli uffici tecnici autoveicoli (cioè il responsabile del progetto di tutte le vetture e i veicoli terrestri costruiti dalla Fiat) e l’anno seguente – in concomitanza con l’inizio del lavoro come professore presso il Politecnico di Torino nel corso di costruzione di motori – progetta la mitica Cisitalia 202, nota soprattutto per il design seducente firmato Pininfarina.Gli anni ’50Gli anni ’50 di Dante Giacosa si aprono con il lancio della Fiat 1400, la prima auto a scocca portante della Casa torinese. Nel 1951 è la volta della Campagnola a trazione integrale mentre due anni più tardi vedono la luce la splendida sportiva 8V e la 1100/103.Nel 1955 Dante diventa capo della direzione superiore tecnica automobili e nello stesso anno vede la luce la Fiat 600, l’auto che motorizzerà gli italiani. Nel 1956 tocca invece all’innovativa 600 Multipla, capace di ospitare sei passeggeri in poco più di tre metri e mezzo di lunghezza (3,54, per l’esattezza).Il 1957 è l’anno in cui nasce l’auto più famosa tra quelle progettate da Dante Giacosa: la Fiat 500. La citycar piemontese – lanciata insieme alla “cugina” più lussuosa Autobianchi Bianchina (realizzata sulla stessa base) – riceve il prestigioso premio Compasso d’Oro due anni più tardi.Gli anni ’60Nel 1960 Giacosa progetta la Giardiniera, variante station wagon della Fiat 500 contraddistinta dal motore a sogliola. La scelta di ruotare di 90° il propulsore bilindrico montato in posizione posteriore consente di ricavare un grande spazio nel vano posteriore.La prima vera rivoluzione tecnica firmata Dante Giacosa arriva però con l’Autobianchi Primula del 1964: la prima auto italiana di sempre con trazione anteriore e motore anteriore trasversale. Nel 1966 lascia l’insegnamento e nello stesso anno vengono presentate la Fiat 124 (la prima auto italiana di sempre a conquistare il prestigioso riconoscimento di Auto dell’Anno) e la sportiva Fiat Dino realizzata in collaborazione con la Ferrari.Gli ultimi anniNel 1969 vedono la luce due auto progettate da Giacosa destinate ad entrare nella storia: l’Autobianchi A112 e la Fiat 128. Quest’ultima – nominata Auto dell’Anno – non è solo la prima auto della Casa torinese a trazione anteriore ma anche la prima di sempre ad usare montanti MacPherson per le sospensioni anteriori. Una scelta adottata ancora oggi dalla stragrande maggioranza delle auto destinate al grande pubblico.Dante Giacosa viene nominato nel 1970 consulente della presidenza e della direzione generale e rappresentante Fiat presso enti nazionali e internazionali ma poco dopo si dimette per ragioni anagrafiche. Scompare a Torino il 31 marzo 1996.
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Fiat Panda, l’evoluzione del design

La storia della Fiat Panda, l’auto più amata dagli italiani, si può suddividere in due epoche: la prima – dal 1980 al 2003 – ha visto una citycar quasi spartana dal design essenziale mentre nella seconda, che stiamo vivendo ora, ci troviamo di fronte ad una vettura tuttofare piccola nelle dimensioni ma grande nei contenuti.Di seguito vi racconteremo l’evoluzione del design della “baby” torinese e di come alcuni elementi di stile, nonostante il passare del tempo, siano stati conservati.Fiat Panda prima generazione (1980)La prima generazione della Fiat Panda, presentata nel 1980, è probabilmente l’auto più geniale tra quelle disegnate da Giorgetto Giugiaro. Lo stile spartano degli esterni (niente maniglie ma un incavo in cui infilare la mano e vetri piatti) serve a risparmiare sui costi di produzione mentre l’abitacolo è pieno di soluzioni pratiche: la parte inferiore della plancia è un’enorme “tasca” che funge da ampio vano portaoggetti e abbattendo il divano posteriore (che può anche trasformarsi in amaca) e i sedili anteriori è possibile dormire dentro la vettura.Pressoché invariata nel design fino al 2003, beneficia di due importanti modifiche alla mascherina nel 1982 (cinque listelli diagonali, gli stessi che verranno adottati negli anni seguenti da altri modelli della Casa torinese) e nel 1991. La versione più originale dal punto di vista stilistico è senza dubbio la Italia ’90 del 1990, realizzata in occasione dei Mondiali di calcio e caratterizzata, tra le altre cose, da copriruota a forma di pallone.Fiat Panda seconda generazione (2003)Il motivo per cui la Fiat Panda seconda generazione – nata nel 2003 – è molto diversa dalla prima è semplice: questa citycar, infatti, non avrebbe dovuto chiamarsi Panda ma Gingo (scelta abortita in seguito alle proteste di Renault per l’eccessiva somiglianza con il nome Twingo).Il design firmato Bertone rappresenta una netta discontinuità rispetto al passato e dice ufficialmente addio al concetto di “essenzialità” per dare il benvenuto al comfort: leva del cambio rialzata in modo da essere più vicina alla mano del guidatore e alti fari posteriori che regalano un tocco “premium” in quanto ricordano quelli delle station wagon Volvo. Pratica come sempre, anzi di più: ora, infatti, ci sono le cinque porte.Tra le versioni stilisticamente più interessanti della seconda generazione della Fiat Panda segnaliamo l’aggressiva Cross del 2005 (che strizza l’occhio al mondo delle SUV) e la trendy Alessi, realizzata in collaborazione con il noto marchio piemontese specializzato in oggetti di design.Fiat Panda terza generazione (2011)La terza generazione della Panda (la prima realizzata dal Centro Stile Fiat) riprende le forme della seconda serie ma in modo più moderno e tondeggiante. Il tema principale del design della citycar piemontese è lo squircle: l’unione tra la robustezza del quadrato e la morbidezza del cerchio si trova nell’originale terzo finestrino laterale, nei fari anteriori (posizionati come sulla 500) e sullo schienale dei sedili anteriori (garantendo un’intercapedine tra la schiena e il tessuto di rivestimento e migliorando in questo modo l’aerazione e il comfort).I due più importanti richiami alla prima serie si trovano invece nell’abitacolo: sulla plancia torna infatti un ampio vano portaoggetti simile al “tascone” e sulle plastiche è ripetuto più volte il nome Panda.
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SS 1 (1931): la prima Jaguar

La SS 1 del 1931 è considerata la prima Jaguar della storia anche se in realtà il marchio del Giaguaro inizia a comparire su un’automobile solo nel 1935. Questo pezzo di storia britannica ha quotazioni che recitano 85.000 euro ma è impossibile trovare esemplari ben tenuti a meno di 100.000 euro.SS 1 (1931): le caratteristiche principaliLa SS 1 è la prima auto costruita dalla Swallow Sidecar, azienda fondata nel 1922 (da cui nascerà la Jaguar) inizialmente specializzata nella realizzazione di moto e nel ricarrozzamento di vetture già esistenti.Il fondatore della società William Lyons, stufo di lavorare su vetture di altre Case, ne progetta una “sua” e chiede alla Standard di costruirgliela e di fornire motori.La SS 1 viene presentata al Salone di Londra del 1931 e conquista subito il pubblico: merito del design sportivo caratterizzato dal baricentro basso e dal cofano lungo ma anche, e soprattutto, del prezzo contenuto (le rivali costavano tre volte tanto).Prodotta fino al 1936 e lunga oltre 4,70 metri, nasce inizialmente come coupé. Nel 1933 – in concomitanza con il lancio della variante cabriolet – arrivano modifiche alle sospensioni e allungamenti al passo (+ 17 cm) e alla carreggiata (+ 5 cm) per accogliere comodamente due passeggeri sui posti posteriori.La gamma della SS 1 si arricchisce nel 1934 – anno in cui William Walmsley (cofondatore della Swallow Sidecar)  abbandona l’azienda – con la versione Airline (carrozzeria chiusa e coda vistosa) mentre risale al 1935 la Coupé Drophead (capote incernierata sul bagagliaio che si ripega all’interno di un vano coperto).SS 1 (1931): la tecnicaLa gamma motori al lancio della SS 1 nel 1931 è composta da due propulsori Standard a sei cilindri: un 2.1 da 49 CV e un 2.6 da 63 CV. Nel 1934 si assiste ad un incremento della cilindrata e della potenza: il propulsore “base” (da 54 CV) passa da 2.054 a 2.143 cc mentre il top di gamma diventa un 2.7 da 69 CV.SS 1 (1931): le quotazioniLa SS 1 è un pezzo di storia dell’automobilismo britannico e mondiale ma si trova abbastanza facilmente. Non fidatevi delle quotazioni che recitano 85.000 euro: è impossibile trovare qualcuno disposto a disfarsene a meno di 100.000 euro.
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Standard Ten (1954): l’utilitaria di sua maestà

La Standard Ten del 1954 è una piccola britannica interessante dal punto di vista storico solo in quanto vincitrice del RAC Rally del 1955. Facile da trovare nel Regno Unito, ha quotazioni che si aggirano intorno ai 4.000 euro (quasi il doppio per gli esemplari restaurati).Standard Ten (1954): le caratteristiche principaliLa Standard Ten, svelata nel 1954, non è altro che una Eight (mostrata l’anno prima) con un motore più grosso e potente e con finiture più curate. Lunga solo 3,66 metri, è disponibile al lancio in tre varianti di carrozzeria: due porte (berlina e veicolo commerciale) e berlina quattro porte. Nel 1955 arriva la versatile station wagon Companion, che conquista parecchi clienti nel Regno Unito grazie alle pratiche porte posteriori e nello stesso anno un esemplare guidato dal pilota britannico Jimmy Ray si aggiudica a sorpresa il prestigioso RAC Rally grazie ad un regolamento che favorisce le vetture di piccola cilindrata.Affidabile e adatta alle superfici sconnesse grazie all’assetto rialzato, è piacevole da guidare e ha una buona tenuta di strada: migliorabili, invece, i freni (poco potenti) e le finiture (essenziali). Alcuni esemplari dotati di guida a sinistra vengono commercializzati (senza grande successo) negli USA come Triumph TR-10.Standard Ten (1954): la tecnicaLa Standard Ten del 1954 monta un motore a quattro cilindri da 950 cc e 34 CV abbinato ad un cambio manuale a quattro marce: un propulsore elastico (anche se un po’ rumoroso) contraddistinto da una buona ripresa. Nel 1957 entra nel listino degli optional l’overdrive.Standard Ten (1954): le quotazioniLa Standard Ten è introvabile in Italia, molto più semplice rintracciarla nel suo Paese natale: il Regno Unito. Le quotazioni ufficiali recitano 4.000 euro ma per entrare in possesso di esemplari ben tenuti bisogna sborsarne almeno 7.000.
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Standard Vanguard (1948): stile americano, cuore britannico

La Vanguard – nata nel 1948 – è la vettura più amata della Casa britannica Standard, scomparsa ufficialmente nel 1987 e sconosciuta ai più. Questa vettura, prodotta in tre generazioni fino al 1963, era caratterizzata (almeno per le prime due serie) da uno stile ispirato ai modelli statunitensi ma i suoi contenuti erano rigorosamente “british”.Standard Vanguard (1948): le caratteristiche principaliLa Standard Vanguard – svelata nel 1948 – è la prima auto prodotta nel secondo Dopoguerra dalla Casa britannica nonché la prima ad adottare il nuovo logo della società: le ali di un grifone.Il nome del veicolo è un omaggio alla nave da guerra HMS Vanguard, l’ultima nave da battaglia della storia, mentre il design aerodinamico – ispirato alle Plymouth degli anni ’40 – ricorda quello della vettura sovietica GAZ-M20 Pobeda presentata due anni prima.La prima generazione della Standard Vanguard – denominata Phase I – è lunga 4,21 metri ed è disponibile in tre varianti di carrozzeria: berlina a quattro porte, station wagon e pick-up (quest’ultima commercializzata solo in Australia).La seconda serie – meglio nota come Phase II – vede la luce al Salone di Ginevra del 1953 e si distingue dall’antenata per uno stile meno originale, che consente però di ottenere un bagagliaio più ampio e una migliore visibilità posteriore. Alla gamma si aggiunge una station wagon a due porte, disponibile anche nella variante furgone.La Standard Vanguard Phase III del 1955 è completamente diversa esteticamente (linee più europee) e tecnicamente (addio al telaio separato) dalle vetture che l’hanno preceduta. La familiare a due porte (anche in configurazione veicolo commerciale) sparisce dai listini.La tecnicaIl motore principale montato da tutte e tre le generazioni della Standard Vanguard è un 2.1 quattro cilindri a benzina in grado di raggiungere potenze fino a 68 CV. Nel listino degli optional della Phase II è però anche presente un’unità 2.1 diesel (al debutto su un’auto britannica) da 25 CV.Le quotazioniLe quotazioni della Standard Vanguard si aggirano intorno ai 5.000 euro: la Phase I è la più apprezzata ma è anche quella più facile da trovare. Sul mercato italiano è impossibile da rintracciare, meglio rivolgersi oltremanica.
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