Category Archives: Auto Classiche

Volkswagen e il Mondiale Rally: la storia

La storia di Volkswagen nel WRC non si limita alla Polo: le auto di Wolfsburg sono state presenti nel Mondiale rally (in forma ufficiale o guidate da privati) fin dalla prima edizione del campionato e hanno ottenuto risultati interessanti.Volkswagen e il Mondiale Rally: la storiaLe vetture Volkswagen sono presenti già nella prima edizione del Mondiale Rally nel 1973: grazie ad alcuni piloti privati il Maggiolino conquista piazzamenti di tutto rispetto. I primi punti iridati arrivano grazie allo svedese Björn Waldegård (6° in Svezia) mentre il miglior risultato stagionale è il quinto posto in Austria del driver locale Georg Fischer.Tre anni più tardi, sempre con il Maggiolino, l’austriaco Leo Schirnhofer porta a casa un 8° posto al Rally dell’Acropoli.Debutto da ufficialeIl 1978 è l’anno in cui la Volkswagen schiera per la prima volta un’auto ufficiale nel Mondiale Rally: si tratta di una Golf affidata al tedesco Jochi Kleint in Gran Bretagna (ritirato). Due anni più tardi lo svedese Per Eklund arriva quinto a Monte Carlo sempre con una Golf (ma come privato).La Golf nel MondialeIl reparto sportivo della Casa di Wolfsburg torna ufficialmente nel Mondiale Rally nel 1982 – dopo quattro anni di assenza – con una Golf schierata in Italia affidata a Eklund (ritirato).Per i primi punti iridati conquistati da Volkswagen Motorsport bisogna invece attendere il 1983 e l’ottava piazza ottenuta dallo svedese Kalle Grundel in Gran Bretagna.Nel 1984 la Golf inizia ad affrontare una stagione quasi completa – escluse le tappe extraeuropee – con Grundel (6° in Italia) mentre l’anno seguente arrivano due noni posti (Grecia e Italia) con il pilota austriaco Franz Wittmann.Momenti di gloriaIl Mondiale Rally 1986 vede la Volkswagen al terzo posto assoluto tra i Costruttori grazie ai numerosi piazzamenti conquistati dallo svedese Kenneth Eriksson (5° in Argentina) e da Wittmann (7° sempre nel Paese sudamericano).Le più grandi soddisfazioni per la compatta teutonica arrivano però nel 1987 con Eriksson: primo podio (3° in Portogallo), secondo posto in Nuova Zelanda e – soprattutto – prima vittoria di sempre (in Costa d’Avorio).A ranghi ridottiVolkswagen inizia a ridurre l’impegno nel motorsport alla fine degli anni ’80: nel 1988 schiera una Golf in Portogallo (con il tedesco Erwin Weber 7°) e due in Kenya, nel 1989 la compatta di Wolfsburg viene utilizzata solo in Nuova Zelanda (3° lo svedese Stig Blomqvist) e nel 1990 Weber arriva terzo, sempre in Nuova Zelanda, con la Golf Rallye G60.Il dominio PoloDopo 23 anni di assenza la Volkswagen rientra ufficialmente nel WRC nel 2013 con la Polo: tre esemplari della piccola tedesca vengono affidati al finlandese Jari-Matti Latvala, al norvegese Andreas Mikkelsen e al francese Sébastien Ogier.La Casa di Wolfsburg domina il Mondiale Rally già nell’anno del debutto: titolo Piloti con Ogier (primo in Svezia, Messico, Portogallo, Italia, Finlandia, Australia, Francia, Spagna e Gran Bretagna) e campionato Costruttori grazie al contributo di Latvala (vincitore in Grecia).Due trionfi WRC firmati Volkswagen che si ripetono nel 2014 – Ogier davanti a tutti a Monte Carlo, in Messico, in Portogallo, in Italia, in Polonia, in Australia, in Spagna e in Gran Bretagna e Latvala sul gradino più alto del podio in Svezia, in Argentina, in Finlandia e in Francia – e nel 2015: Ogier domina a Monte Carlo, in Svezia, in Messico, in Italia, in Polonia, in Germania, in Australia e in Gran Bretagna, Latvala vince in Portogallo, in Finlandia e in Francia e Mikkelsen ottiene il primo successo in carriera in Spagna.La Polo ha monopolizzato anche il WRC 2016 (non ancora terminato): titolo Piloti con Ogier (primo a Monte Carlo, in Svezia, in Germania, in Francia, in Spagna e in Gran Bretagna) e titolo Costruttori grazie a Latvala (vincitore in Messico) e a Mikkelsen (primo in Polonia).
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Toyota Celica, la storia della coupé giapponese

La carriera della Toyota Celica – una delle sportive giapponesi più amate di sempre – è durata quasi 40 anni. Scopriamo insieme la storia di questa vettura, capace – tra le altre cose – di conquistare sei Mondiali rally WRC (quattro Piloti e due Costruttori) in cinque anni.Toyota Celica prima generazione (1970)La prima generazione della Toyota Celica, presentata al Salone di Tokyo del 1970, è una coupé progettata per conquistare soprattutto il mercato nordamericano.Costruita sulla stessa piattaforma a trazione posteriore della berlina Carina, ha una gamma motori con cilindrate comprese tra 1,4 e 2,2 litri. Inizialmente disponibile a due porte, viene affiancata nel 1973 da una più versatile (nonché più originale) variante col portellone. Nel 1975 è la volta di un restyling.Toyota Celica seconda generazione (1977)La seconda generazione della Toyota Celica sbarca sul mercato nel 1977 e si differenzia dall’antenata per la presenza di una versione cabriolet. Disegnata negli USA, monta motori da 1,6 a 2,4 litri.Nel 1978 vede la luce la variante XX (la prima serie della mitica Supra), l’anno seguente i fari quadrati rimpiazzano i gruppi ottici tondi mentre nel 1980 nasce la versione a quattro porte Camry, che darà vita ad una fortunata famiglia di ammiraglie.Toyota Celica terza generazione (1981)Il 1981 è l’anno del debutto della terza generazione della Toyota Celica. Inizialmente disponibile a due o a tre porte, ospita sotto il cofano motori da 1,6 a 2,4 litri.Nel 1983 la coupé nipponica inizia a farsi valere nei rally con la prima vittoria nel WRC – in Costa d’Avorio – ottenuta dallo svedese Björn Waldegård mentre l’anno successivo – in concomitanza con l’arrivo nelle concessionarie della variante scoperta – è la volta di un restyling che porta una nuova mascherina e i fari anteriori a scomparsa.Toyota Celica quarta generazione (1985)La rivoluzione per la Toyota Celica arriva con la quarta generazione del 1985 che porta la trazione anteriore. L’anno seguente debutta la versione GT-Four a trazione integrale mentre risale al 1988 il primo sbarco ufficiale nelle concessionarie italiane con un unica variante: la 2.0 turbo GT-Four da 185 CV.Toyota Celica quinta generazione (1989)La quinta generazione della Toyota Celica è la prima auto asiatica ad aver conquistato un Mondiale rally: nel 1990 e nel 1992 la sportiva nipponica porta a casa due titoli WRC Piloti con lo spagnolo Carlos Sainz.La coupé del Sol Levante arriva nel nostro Paese nel 1990 in un’unica versione (2.0 turbo 4WD da 204 CV) e solo due anni più tardi – in occasione del restyling – è possibile acquistare da noi varianti meno potenti (1.6 da 105 CV e 2.0 da 156 CV). Senza dimenticare la Limited Edition a trazione integrale da 208 CV, commercializzata per pochi mesi.Toyota Celica sesta generazione (1993)La sesta generazione della Toyota Celica – nata nel 1993 – è quella più vincente nei rally: nel biennio 1993-1994 conquista due Mondiali Piloti (con il finlandese Juha Kankkunen e con il francese Didier Auriol) e due titoli Costruttori.Simile nello stile alla precedente (ma con un frontale impreziosito da quattro fari tondi), si presenta in Italia nel 1994 con tre motori al lancio: un 1.8 da 116 CV e due 2.0 da 175 e 242 CV. In occasione del restyling del 1996 la gamma dei propulsori viene rivista (1.8 da 116 CV e 2.0 da 170 CV).Toyota Celica settima generazione (1999)L’ultima evoluzione della Toyota Celica, la settima, porta diverse novità: uno stile più spigoloso e la sparizione delle versioni a trazione integrale e della cabriolet (quest’ultima mai commercializzata in Italia, comunque).La coupé asiatica debutta nel 1999 con un motore 1.8 da 143 CV, affiancato nel 2001 da una variante più potente da 192 CV. Due anni più tardi è la volta di un leggero restyling, che porta leggere modifiche al frontale.
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Vanden Plas 4 Litri Limousine (1960): il lusso in saldo

La Vanden Plas 4 Litri Limousine – nata nel 1960 – è una lussuosa ammiraglia britannica che cercò di rubare clienti a Bentley e Rolls-Royce puntando sul prezzo più basso. Anche oggi costa poco e si trova abbastanza facilmente nel Regno Unito: per i matrimoni è perfetta.Vanden Plas 4 Litre Limousine (1960): le caratteristiche principaliLa Vanden Plas 4 Litre Limousine nasce ufficialmente nel 1960 anche se in realtà deriva dalla Austin A135 Princess Mark III Limousine del 1952 (vettura che nel 1956 guadagna il cambio automatico e il servosterzo della Princess IV, che l’anno seguente viene rimarchiata con il brand Princess e che nel 1960 viene commercializzata con la nuova sigla Vanden Plas).Lunga quasi cinque metri e mezzo e caratterizzata da un design già superato per l’epoca (come dimostrano i parafanghi separati), presenta un abitacolo rifinito in maniera impeccabile e impreziosito da materiali come legno, pelle e stoffe pregiate.La Vanden Plas 4 Litri Limousine del 1960 – prodotta fino al 1968 – è la classica vettura di rappresentanza che va guidata dall’autista: tra gli optional era persino presente un interfono per permettere la comunicazione tra il guidatore e i passeggeri. I sei posti a sedere sono disposti su tre file (quella centrale contraria al senso di marcia).Nel 1974 l’ammiraglia britannica diventa protagonista di uno degli episodi di cronaca più famosi del Regno Unito: il tentativo di rapimento ai danni della principessa Anna, unica figlia della Regina Elisabetta.Vanden Plas 4 Litri Limousine (1960): la tecnicaObsoleta nel design e anche nei contenuti, la Vanden Plas 4 Litri Limousine monta un motore piuttosto antiquato – un 4.0 a sei cilindri in linea da 124 CV – abbinato ad un cambio automatico a quattro rapporti.L’ammiraglia inglese andava forte per l’epoca (poteva sfiorare i 160 km/h di velocità massima) ma aveva forti problemi ad arrestarsi per via dei quattro freni a tamburo.Vanden Plas 4 Litri Limousine (1960): le quotazioniLa 4 Litre Limousine – prodotta dal 1960 al 1968 – è senza dubbio l’auto più esclusiva commercializzata con il marchio Vanden Plas e vale più della “cugina” Austin Princess. Non fatevi ingannare, però, dalle quotazioni che recitano 20.000 euro: lo scarso interesse riscontrato nei confronti del modello unito alla sterlina debole consente di portarsela a casa con circa 5.000 euro. L’unico problema riguarda i costi di mantenimento successivi all’acquisto.
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Hudson Hornet (1951): famosa per la Nascar, nel mito grazie a Cars

La prima Hudson Hornet, nata nel 1951, è un pezzo di storia dell’automobilismo USA: dopo essere diventata famosa negli anni Cinquanta per essere stata la prima vettura a vincere il campionato Nascar (per tre anni di seguito: dal 1952 al 1954) è entrata nel mito grazie al film “Cars” del 2006 e al personaggio di Doc doppiato da Paul Newman. Di seguito analizzeremo nel dettaglio la versione a due porte, quella più rara e più costosa (ma anche quella più interessante dal punto di vista storico).Hudson Hornet (1951): le caratteristiche principaliLa Hudson Hornet due porte nasce nel 1951 per rimpiazzare la Commodore: simile nello stile all’antenata (ma con linee più aggressive), è più spaziosa e ha una tenuta di strada eccellente. Merito soprattutto del baricentro basso.Nel 1953 la mascherina viene leggermente modificata mentre l’anno seguente è la volta di un restyling più profondo che porta un design più spigoloso.Hudson Hornet (1951): la tecnicaLa prima generazione della Hudson Hornet monta al lancio (nel 1951) un motore 5.0 da 145 CV: un’unità a sei cilindri in linea che beneficia di un aumento di potenza (160 CV) nel 1954.Hudson Hornet (1951): le quotazioniA causa del film “Cars” la Hudson Hornet prima serie a due porte (già introvabile) ha raggiunto quotazioni spropositate: si trova ormai solo nelle aste statunitensi e i prezzi possono arrivare a 100.000 euro.
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Commodore e Hornet, le berline Hudson del secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra la Hudson lanciò due berline molto interessanti: la prima – chiamata Commodore – rivoluzionò il design negli anni ’40 mentre la sua erede, la più famosa Hornet, fu una delle quattro porte più sportive in commercio negli USA nel decennio successivo. Oggi si trovano facilmente negli States a prezzi compresi tra 10.000 e 20.000 euro.Le berline Hudson del secondo dopoguerra: le caratteristiche principali della Commodore e della HornetLa carriera delle berline Hudson del secondo dopoguerra inizia nel 1946 con il lancio della seconda generazione della Commodore: contraddistinta da una dotazione di serie ricchissima, ha un design simile a quello dell’antenata ma con un’originale mascherina impreziosita da una parte centrale concava.La vera rivoluzione nello stile arriva con il debutto della terza generazione nel 1948 realizzata grazie al contributo di Betty Thatcher, moglie di Joe Oros e una delle prime car designer della storia: i parafanghi integrati e le ruote posteriori parzialmente carenate verranno riprese dalle rivali negli anni successivi. Il piacere di guida è garantito dal baricentro basso e dal telaio monoscocca.Nel 1949 la gamma della Hudson Commodore si arricchisce con l’arrivo della versione lussuosa Custom mentre risale al 1951 l’ingresso nel listino degli optional del cambio automatico Hydramatic. In occasione dell’ultimo anno di commercializzazione – il 1952 – la vettura beneficia di alcune modifiche estetiche e di un cambio di denominazione: Six per le sei cilindri e Eight per le varianti a otto cilindri.La prima generazione della Hudson Hornet debutta nel 1951: ha forme ispirate a quelle della Commodore ma più sportive, ha un abitacolo spazioso ma allo stesso tempo offre una tenuta di strada tra le migliori della categoria. Non a caso la variante coupé (a cui dedicheremo un capitolo a parte più avanti) conquisterà numerosi titoli Nascar nella prima metà del decennio.Nel 1953 viene ridisegnata la mascherina della Hornet e l’anno successivo l’intero corpo vettura si presenta con forme leggermente più spigolose. Risale sempre al 1954 la fusione della Hudson con la Nash-Kelvinator che porta alla nascita della AMC (American Motors Corporation).La prima vettura progettata dal nuovo colosso è proprio la seconda generazione della Hudson Hornet mostrata nel 1955: comoda, spaziosa, piacevole da guidare e con prestazioni vivaci, ha tuttavia un design meno riuscito di quello dell’antenata. L’anno successivo si cerca di rimediare con una mascherina più aggressiva ma le vendite non crescono e l’abbassamento dei prezzi nel 1957 non aiuta in alcun modo a salvare la situazione di questo modello.Le berline Hudson del secondo dopoguerra: la tecnica della Commodore e della HornetI motori della seconda e della terza generazione della Hudson Commodore sono delle classiche unità a sei e a otto cilindri in linea prive di qualsiasi velleità sportiva. Decisamente più vivace, invece, il propulsore montato al lancio dalla prima generazione della Hornet: un 5.0 a sei cilindri in linea da 147 CV.La variante più cattiva di questa unità – quella da 173 CV – entra ufficialmente nel listino degli optional nel 1952 ma va detto che il propulsore può essere tranquillamente elaborato fino a fargli raggiungere potenze superiori a 200 CV. La variante “entry-level” beneficia invece di un incremento di puledri (da 147 a 162) nel 1954.In occasione del lancio della seconda generazione della Hudson Hornet viene finalmente affiancato al sei cilindri un attesissimo 5.2 V8 da 211 CV. Risale invece al 1957 – ultimo anno di produzione – il debutto di un possente 5.4 V8 da 258 CV.Le berline Hudson del secondo dopoguerra: le quotazioni di Commodore e HornetLe berline Hudson del secondo dopoguerra sono facili da trovare negli USA: le più accessibili Commodore (meno interessanti dal punto di vista storico) si portano a casa con meno di 15.000 euro mentre per la più ricercata Hornet prima serie le cifre partono da 20.000 euro per le versioni meno cattive.La seconda generazione della Hornet può vantare prestazioni più brillanti grazie alle unità V8 non presenti sotto il cofano dell’antenata ma le quotazioni più basse (tra 15.000 e 20.000 euro) sono dovute al minore interesse riscontrato all’epoca nei confronti della vettura.
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Birabongse Bhanudej: il principe Bira, pilota della Thailandia

Birabongse Bhanudej è stato uno dei piloti asiatici più forti visti in F1 ma era anche un membro della famiglia reale della Thailandia. Il principe Bira, questo il nome con cui era conosciuto nell’ambiente del motorsport, ha mostrato le cose migliori negli anni ’50 e dopo le corse si è cimentato anche in altri sport. Scopriamo insieme la sua storia.Birabongse Bhanudej: la storia del principe BiraBirabongse Bhanudej (meglio noto come principe Bira) nasce il 15 luglio 1914 a Bangkok (Thailandia). Nipote del Re del Siam Mongkut (la cui storia è stata raccontata in due film: “Il re ed io” del 1956 e “Anna and the King” del 1999), lascia il paese a 13 anni per andare nel prestigioso liceo britannico di Eton.Nel 1933, dopo aver conseguito il diploma, intende inizialmente frequentare l’università a Cambridge ma successivamente sceglie di studiare scultura nell’atelier di Charles Wheeler. L’anno seguente viene spinto a frequentare un corso di pittura presso la scuola d’arte Byam Shaw ma quella scuola gli sarà utile solo per conoscere quella che diventerà la sua prima (nonché sesta) moglie: Ceril Heycock.Il debutto nel motorsportNel 1935 Birabongse Bhanudej debutta nel mondo delle corse sul circuito di Brooklands al volante di una Riley Imp appartenente alla scuderia fondata da suo cugino (il principe Chula Chakrabongse). Negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale il principe Bira si fa notare nel Regno Unito per le buone doti da pilota e per la quantità impressionante di soldi spesi per acquistare le vetture migliori e per stipendiare i tecnici più capaci.La prima vittoria rilevante arriva nel 1937 con il trionfo alla 12 Ore di Donington in coppia con il britannico Hector Dobbs al volante di una Delahaye 135CS mentre risale a due anni più tardi il debutto alla 24 Ore di Le Mans con il francese Raymond Sommer alla guida di un’Alfa Romeo 6C 2500SS.Dopo la guerraDopo la Seconda Guerra Mondiale il principe Bira torna a frequentare il mondo del motorsport e in occasione del primo Mondiale F1 della storia (quello del 1950) riesce a terminare la stagione all’8° posto nella classifica generale. Un risultato eguagliato – tra i piloti asiatici – solo nel 2004 dal giapponese Takuma Sato.In quattro GP disputati con una Maserati gestita dalla scuderia elvetica di Enrico Platé Birabongse Bhanudej riesce a fare meglio del compagno di scuderia (il rossocrociato Toulo de Graffenried) portando a casa come miglior risultato un quarto posto in Svizzera.Nel 1951 il principe Bira disputa un solo GP (quello di Spagna, ritirato) come privato con una Maserati motorizzata OSCA.Pilota ufficialeIl 1952 è l’anno in cui Birabongse Bhanudej trova un posto da pilota ufficiale in F1: corre in Svizzera e in Belgio con una Simca Gordini (10° a Spa-Francorchamps) e in Francia e in Gran Bretagna – in seguito all’abbandono della partnership con Simca – con una “semplice” Gordini (11° a Silverstone). Complessivamente si rivela più lento dei quattro compagni di scuderia con cui ha a che fare: i francesi Jean Behra, Robert Manzon e Maurice Trintignant ed il belga Johnny Claes.Il principe Bira passa alla Connaught nel 1953: con la monoposto britannica disputa tre GP (7° posto in Gran Bretagna come miglior risultato) risultando più rapido dei compagni inglesi Kenneth McAlpine e Roy Salvadori e in seguito corre il GP d’Italia (11°) con una Maserati della Scuderia Milano in una gara che vede il ritiro del coéquipier brasiliano Chico Landi.L’era MaseratiNell’ultimo biennio di carriera come pilota Birabongse Bhanudej riesce a prendersi parecchie soddisfazioni con la Maserati: nel 1954 disputa il GP d’Argentina con la squadra ufficiale del Tridente e si piazza in 7° posizione (peggio dell’argentino Juan Manuel Fangio ma meglio del francese Onofre Marimon e del nostro Luigi Musso). Come privato riesce invece a portare a casa un 4° posto in Francia e due successi in due gare non valide per il Mondiale: il GP des Frontières in Belgio del 1954 e il GP di Nuova Zelanda del 1955.Dopo le corseDopo aver abbandonato il mondo delle corse nella metà degli anni ’50 il principe Bira partecipa come velista per la Thailandia in quattro edizioni delle Olimpiadi (Melbourne 1956, Roma 1960, Tokyo 1964 e Monaco di Baviera 1972).Birabongse Bhanudej muore il 23 dicembre 1985 a Londra (Regno Unito), colpito da un infarto nella stazione della metropolitana di Barons Court.
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Marcos Mantis (1970): l’auto più brutta di sempre

La Marcos Mantis – nata nel 1970 – può essere tranquillamente considerata l’auto più brutta di sempre. Questa rarissima coupé britannica – prodotta in 32 esemplari (ma ne circolano ancora solo poco più di 10) – ha quotazioni che recitano 10.000 euro, anche se in realtà per portarsela a casa bisogna sborsarne come minimo 15.000.Marcos Mantis (1970): le caratteristiche principaliLa Mantis è una coupé 2+2 realizzata nel 1970 dalla Casa inglese Marcos (fondata nel 1959 e scomparsa, dopo svariati tentativi di rianimazione, nel 2007).Prodotta in soli 32 esemplari fino al 1971 (anno in cui il brand chiude per ragioni economiche), viene – giustamente – ignorata dal pubblico: colpa soprattutto del design sproporzionato (caratterizzato da linee improbabili e da un tanto gigantesco quanto inutile sbalzo posteriore) e della scarsa affidabilità.Tra i punti di forza della Marcos Mantis del 1970 segnaliamo invece l’ottima visibilità, il buon comportamento stradale, il bagagliaio ampio e un abitacolo spazioso, costruito con cura e, a differenza della carrozzeria, esteticamente gradevole.Marcos Mantis (1970): la tecnicaIl motore della Marcos Mantis del 1970 – l’auto più brutta di sempre – è lo stesso 2.5 a sei cilindri in linea da 152 CV adottato dalla Triumph TR6 abbinato ad un cambio manuale a quattro marce.Marcos Mantis (1970): le quotazioniLe quotazioni della Marcos Mantis del 1970 recitano 10.000 euro ma in realtà per acquistarla è impossibile sborsare meno di 15.000 euro. Il ridotto numero di esemplari a disposizione (32 costruiti, poco più di 10 ancora circolanti) la rende introvabile: è interessante dal punto di vista storico solo perché è rara.
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Ferrari 375 Plus: l’eroina dei due mondi

La Ferrari 375 Plus è una delle due auto (l’altra è la Mercedes 300 SL) capaci di conquistare la 24 Ore di Le Mans e la Carrera Panamericana. Scopriamo insieme la storia della sportiva di Maranello.Ferrari 375 Plus: la storiaLa Ferrari 375 Plus viene creata nel 1954 per bissare la vittoria nel Mondiale Sportprototipi (conquistato l’anno prima con la 340 MM e la 375 MM).Questa spider emiliana disegnata da Pininfarina e prodotta in 8 esemplari monta un motore 5.0 V12 da 330 CV abbinato ad un cambio manuale a cinque marce che le permette di raggiungere una velocità massima di 280 km/h.Il 1954La Ferrari 375 Plus debutta in gara il 28 febbraio 1954 in Marocco e conquista immediatamente la prima vittoria grazie al nostro Giuseppe Farina, primo nel GP di Agadir.Il 13 giugno la scoperta di Maranello si aggiudica la 24 Ore di Le Mans con l’argentino José Froilán González e il francese Maurice Trintignant mentre risale al 23 novembre il trionfo di Umberto Maglioli alla Carrera Panamericana. Grazie a questi trionfi arriva il secondo titolo iridato.Le altre vittorieNel 1955 – il 23 gennaio – arriva l’ultimo successo rilevante per la Ferrari 375 Plus quando i piloti privati argentini Enrique Sáenz Valiente e José-Maria Ibanez salgono a sorpresa sul gradino più alto del podio della 1000 km di Buenos Aires.La sportiva del Cavallino continua a correre in gare minori fino all’inizio degli anni Sessanta e l’ultima vittoria assoluta arriva nel 1959 a Pomona, in California, grazie ad un giovane pilota statunitense: un certo Dan Gurney…
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Legend Tour: il raduno delle Fiat 124 Spider (anche quelle nuove)

Prenderà il via venerdì 7 ottobre 2016 il Fiat 124 Spider Legend Tour, raduno dedicato a tutti i possessori della sportiva torinese.Tre giorni all’insegna del piacere di guida contraddistinti da tre differenti percorsi che partono da Roma e vi ritornano: venerdì 7 ottobre 2016, dopo un giro di pista sul circuito di Vallelunga, i partecipanti al raduno delle Fiat 124 Spider toccheranno le città etrusche di Tarquinia, Tuscania e Viterbo mentre sabato 8 ottobre 2016 gli equipaggi affronteranno un itinerario tra Spoleto e il Terminillo che celebra la potenza della natura.Domenica 9 ottobre 2016 il raduno 124 Spider Legend Tour dedicato alle mitiche scoperte Fiat celebrerà Roma tra le Terme di Caracalla, il Colosseo e Ostia.
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Audi A4, l’evoluzione del design

L’Audi A4 – la berlina più amata dagli italiani – ha impiegato poco tempo a sedurre gli automobilisti. Merito di contenuti di alto livello e di un design particolarmente riuscito.Di seguito vi racconteremo l’evoluzione dello stile della “segmento D” di Ingolstadt, al cui progetto hanno lavorato anche alcuni tra i più imporanti car designer contemporanei.Audi A4 B5 (1994)La prima generazione dell’Audi A4 – denominata B5 – nasce ufficialmente nel 1994 ma i primi schizzi risalgono addirittura al 1988. Lo stile degli esterni viene approvato nel 1991 mentre quello degli interni nel 1992.Disponibile in due varianti di carrozzeria (berlina e station wagon Avant) e oggetto di un restyling nel 1997, non ha un design particolarmente originale: il frontale ricorda (troppo) quello dell’antenata 80 e l’unico elemento di stile di un certo interesse è lo spoiler integrato nella coda.Audi A4 B6 (2000)Nonostante sia nata nel 2000 l’Audi A4 B6 appare ancora oggi moderna: merito della coda tondeggiante e delle forme semplici – ispirate a quelle della A6 C5 – realizzate da Peter Schreyer (l’uomo che ha disegnato anche la prima serie della sportiva TT e che ha rivoluzionato lo stile di Hyundai e Kia).La variante station wagon Avant del 2001 è invece opera di un altro maestro del car design contemporaneo: Luc Donckerwolke, attualmente responsabile dello stile in Genesis (marchio di lusso del gruppo Hyundai) e autore delle Lamborghini Murciélago e Gallardo. L’anno seguente è la volta della Cabriolet con la capote in tela.Audi A4 B7 (2004)L’Audi A4 B7 del 2004 non è altro che un profondo restyling della B6 realizzato nientepopodimeno che da Walter de Silva, che fa debuttare anche sulla berlina di Ingolstadt l’aggressiva mascherina “single frame” introdotta sulla A6 C6.Audi A4 B8 (2007)La rivoluzione stilistica per l’Audi A4 arriva con la B8 del 2007: più grande e più spaziosa per passeggeri e bagagli, appare molto più bassa, più larga e più piantata a terra e vanta affascinanti luci diurne a LED.Sparita la cabriolet, nel 2009 arriva la versione allroad che strizza l’occhio al mondo delle SUV grazie alle protezioni in plastica grezza mentre il restyling del 2012 si limita a pochi interventi mirati.Audi A4 B9 (2015)Ancora più grande, ancora più aggressiva: l’Audi A4 B9 del 2015 ricorda nello stile la serie precedente ma è ancora più grintosa e sexy.
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