Category Archives: Auto Classiche
Dynasty, Equus e Genesis, la storia delle ammiraglie Hyundai
Da quasi vent’anni la Hyundai produce e vende lussuose ammiraglie in grado di lottare ad armi pari con le più blasonate rivali tedesche. Vetture eleganti e raffinate che non sono purtroppo commercializzate nel nostro Paese.La gamma attuale delle “berlinone” della Casa coreana è composta da due modelli: la Genesis, giunta alla seconda generazione (presentata nel 2014), punta a sfidare la BMW serie 5 e la Mercedes classe E. Lunga 4,99 metri e disponibile a trazione posteriore o integrale, ha una gamma motori composta da quattro unità a benzina: 3.0 V6 da 257 CV, 3.3 V6 da 282 CV, 3.8 V6 da 315 CV e 5.0 V8 da 425 CV.La seconda serie della Hyundai Equus (svelata nel 2009) – più grande (5,16 metri di lunghezza) e più esclusiva della Genesis – rappresenta un’alternativa più accessibile alla Mercedes classe S. La gamma propulsori al lancio – tutti a benzina – comprende un 3.8 V6 da 290 CV, un 4.6 V8 da 366 CV e un 5.0 V8 da 400 CV (quest’ultimo montato solo dalla variante Limousine, caratterizzata da un passo più lungo di 30 cm).Nel 2010 debutta un’altra unità, un 4.6 V8 da 383 e 390 CV, mentre due anni più tardi – in concomitanza con l’ingresso in listino del cambio automatico a otto rapporti – la gamma motori viene completamente rivista: 3.8 V6 da 290 e 334 CV (ad iniezione diretta), 4.6 V8 da 366 e 385 CV e 5.0 V8 (tutti ad iniezione diretta) da 416, 430 e 435 CV. Scopriamo insieme la storia delle antenate di questi modelli.Hyundai Dynasty (1996)La Dynasty del 1996 è la prima berlina di rappresentanza prodotta dalla Hyundai: realizzata sullo stesso pianale a trazione anteriore della seconda generazione della Grandeur, si distingue per un design più ricercato e per finiture più curate. Tre i motori disponibili, tutti V6 a benzina: 2.5 da 170 CV, 3.0 da 197 CV e 3.5 da 228 CV.Hyundai Equus prima generazione (1999)La prima generazione della Equus – progettata e prodotta in collaborazione con la Mitsubishi (i modelli assemblati dalla Casa giapponese si chiamano Proudia e Dignity) – ha la trazione anteriore e viene lanciata nel 1999 in due varianti (“normale” e Limousine con passo allungato di 25 cm) con due motori a benzina: 3.5 V6 e 4.5 V8.Pochi mesi più tardi la gamma dei propulsori della prima serie della Hyundai Equus si arricchisce con un 3.0 V6 mentre il restyling del 2003 porta numerose modifiche al design esterno e (soprattutto) nell’abitacolo. Due anni più tardi le due unità a sei cilindri vengono rimpiazzate da un 3.3 e da un 3.8.Hyundai Genesis prima generazione (2008)La Genesis nasce nel 2008 per rimpiazzare la Dynasty. Disponibile esclusivamente a trazione posteriore, monta al lancio due motori V6 a benzina: un 3.3 da 262 CV e un 3.8 da 290 CV.Nel 2010 entra nel listino della Hyundai Genesis prima generazione un 4.6 V8 da 383 e 390 CV. Due anni dopo debuttano due V6 ad iniezione diretta (3.3 da 300 CV e 3.8 da 334 e 338 CV), un 4.6 V8 da 366 CV e un 5.0 V8 da 430 e 435 CV. Senza dimenticare il lieve aumento di potenza (da 383 a 385 CV) del 4.6 “intermedio”.

Fonte
Amphicar (1961): l’auto anfibia più famosa
La Amphicar – nata nel 1961 – è la prima auto anfibia prodotta in massa destinata ad un uso civile ed è ancora oggi il mezzo più famoso tra quelli in grado di viaggiare senza problemi sulla terra e in acqua.Realizzata in poco meno di 4.000 esemplari (3.878 per la precisione), è abbastanza difficile da trovare (più semplice rintracciarla nel suo paese d’origine: la Germania) e le sue quotazioni reali sono più alte di quelle ufficiali (15.000 euro).Amphicar (1961): le caratteristiche principaliLa Amphicar del 1961 – progettata da Hans Trippel (noto per aver disegnato qualche anno prima le porte ad ali di gabbiano della Mercedes 300 SL) – nasce per offrire agli automobilisti la possibilità di avventurarsi in mare (o nei laghi o nei fiumi) con un veicolo utilizzabile anche su asfalto.Dotata di una carrozzeria in acciaio, presenta due eliche posizionate sotto al paraurti posteriore ma è priva di timone: per cambiare direzione basta agire sul volante.La tecnicaIl motore della Amphicar è un 1.1 quattro cilindri a benzina da 44 CV, lo stesso della Triumph Herald, abbinato ad un cambio manuale a quattro marce.Le prestazioni non sono il suo forte: la cabriolet anfibia tedesca, infatti, raggiunge una velocità massima di 110 km/h su strada e di 7 nodi in acqua.Le quotazioniLe quotazioni ufficiali della Amphicar recitano 15.000 euro ma in realtà preparatevi a spendere molto di più (circa 50.000 euro) per entrare in possesso di questa vettura.L’estrema rarità di questo modello – unita alla sua capacità di attraversare senza problemi superfici ricoperte di acqua – dovrebbe contribuire a mantenere alti i prezzi.

Fonte
Porsche: tre giacche vintage per celebrare il ritorno a Le Mans
Da settembre – sul sito www.porsche.com/shop – sarà possibile acquistare tre giacche vintage Porsche create per celebrare il ritorno della Casa di Zuffenhausen alla 24 Ore di Le Mans.Questi capispalla (prezzo non ancora comunicato) sono repliche di quelli utilizzati dal team tedesco tra il 1968 e il 1970 e presentano un portapass sulla tasca destra, un logo Porsche su quella sinistra e – sul retro – una scritta in rilievo identificativa del marchio più vincente (16 successi) nella storia della mitica corsa endurance francese.La giacca Porsche vintage verde è simile a quella indossata da piloti come il britannico Richard Attwood e il tedesco Hans Herrmann (vincitori della 24 Ore di Le Mans del 1970), lo svizzero Jo Siffert e il britannico Brian Redman. Quella rossa ricorda quella usata dai meccanici mentre quella color vino può vantare un cappuccio.

Fonte
William Lyons, il fondatore della Jaguar
William Lyons è uno dei personaggi più importanti dell’automobilismo britannico: ha creato la Jaguar e l’ha fatta diventare un marchio amato e rispettato in tutto il mondo. Scopriamo insieme la storia di questo imprenditore, attivo anche con le due ruote.William Lyons: la biografiaWilliam Lyons nasce il 4 settembre 1901 a Blackpool (Regno Unito). Figlio di un immigrato irlandese proprietario di un negozio di strumenti musicali, decide di non seguire le orme del padre e si concentra sugli studi di ingegneria a Manchester. Trova il primo impiego alla Crossley (una Casa automobilistica scomparsa alla fine degli anni Cinquanta) e nel 1919 diventa venditore Sunbeam.La svoltaLa svolta per William arriva a 20 anni in seguito all’incontro con il produttore di sidecar William Walmsley: nel 1922 fondano insieme una nuova società – la Swallow Sidecars – inizialmente rivolta esclusivamente alla produzione di motocarrozzette e, dalla seconda metà del decennio, concentrata anche sulle automobili.William Lyons ottiene una discreta fama nella realizzazione di carrozzerie per Austin Seven, che conquistano numerosi clienti. La Swallow cresce: nel 1928 si trasferisce a Coventry, tre anni più tardi fa debuttare la prima automobile (la scoperta a quattro posti SS 1) e nel 1933 cambia nome in SS Cars.L’espansioneNel 1934 Lyons si ritrova da solo a gestire l’azienda dopo l’addio di Walmsley: amplia la gamma e nel 1935 lancia i modelli Jaguar. Dopo la Seconda Guerra Mondiale questa sigla viene utilizzata come marchio al posto di SS, un nome che evoca l’unità paramilitare nazista.L’epopea JaguarNel 1948 la Casa creata da William Lyons diventa nota in tutto il mondo con il lancio della sportiva XK120, una spider in grado di raggiungere le 120 miglia orarie (193 km/h), e del motore XK a sei cilindri in linea, un’unità che verrà montata da numerose vetture del marchio inglese fino al 1992.Negli anni Cinquanta e Sessanta Lyons gestisce ogni dettaglio dell’azienda, si circonda di un team di validi ingegneri e ha l’ultima parola su ogni decisione presa all’interno della società. Nel 1955 perde il suo unico figlio maschio – John Michael – in un incidente stradale e nel 1966, conscio di non poter cedere la società ad un erede, fonde la Jaguar con la BMC per creare la British Motor Holdings, successivamente assorbita nella British Leyland.William Lyons abbandona il ruolo di direttore generale nel 1967 e si ritira in pensione nel 1972. Scompare l’8 febbraio 1985 a Leamington Spa (Regno Unito).

Fonte
Porsche, la storia della Casa di Zuffenhausen
Poche Case automobilistiche sanno emozionare come la Porsche: in oltre 80 anni di carriera le supercar del marchio di Zuffenhausen hanno conquistato milioni di clienti in tutto il mondo e migliaia di vittorie sportive. Scopriamo insieme la storia di questo brand.Porsche: la storiaLa Porsche nasce ufficialmente nel 1931 quando Ferdinand Porsche si mette in proprio ma bisogna aspettare la fine della Seconda Guerra Mondiale – più precisamente il 1948 – per vedere la prima automobile costruita con questo marchio destinata al pubblico: la 356, una sportiva – disponibile coupé o cabriolet – derivata dalla Volkswagen Maggiolino.Gli anni CinquantaNel 1951, in concomitanza con la morte di Ferdinand, la produzione viene spostata dall’Austria a Stoccarda. Due anni più tardi viene realizzata la 550, una barchetta a motore centrale nota per aver regalato alla Casa tedesca la prima vittoria importante (Targa Florio 1956 con Umberto Maglioli e il teutonico Huschke von Hanstein) e per il fatto di essere stata, nel 1955, l’ultima auto guidata da James Dean, scomparso in un incidente stradale.Il decennio si chiude con il secondo successo alla Targa Florio: nel 1959 salgono sul gradino più alto del podio i due piloti tedeschi Edgar Barth e Wolfgang Seidel.Gli anni SessantaGli anni Sessanta iniziano alla grande: lo svedese Jo Bonnier, il tedesco Hans Herrmann e il britannico Graham Hill conquistano un’altra Targa Florio nel 1960 e due anni più tardi lo statunitense Dan Gurney porta al marchio di Zuffenhausen la prima (e unica) vittoria in F1 (nel GP di Francia).L’anno della svolta per la Porsche è il 1963, quando Ferdinand Alexander Porsche (soprannominato “Butzi”) progetta la 911, un mito su quattro ruote vincente nel motorsport ma anche utilizzabile senza problemi tutti i giorni.Tra il 1963 e il 1969 le vetture del brand teutonico dominano nelle corse: sei Targa Florio (Bonnier e Carlo Maria Abate 1963, il britannico Colin Davis e Antonio Pucci nel 1964, il belga Willy Mairesse e lo svizzero Herbert Müller nel 1966, l’australiano Paul Hawking e il tedesco Rolf Stommelen nel 1967, il britannico Vic Elford e Umberto Maglioli nel 1968 e il duo “made in Germany” composto da Gerhard Mitter e Udo Schütz nel 1969), due Rally di Monte Carlo (Elford nel 1968 e lo svedese Björn Waldegård nel 1969) e una Daytona nel 1968 con Elford, Hermann, Stommelen, il tedesco Jochen Neerpasch e l’elvetico Jo Siffert.Gli anni SettantaNella prima metà degli anni Settanta la Porsche consolida il proprio ruolo di potenza nel motorsport: quattro Daytona (il finlandese Leo Kinnunen, il britannico Brian Redman e il messicano Pedro Rodríguez nel 1970, Rodríguez e il britannico Jackie Oliver nel 1971 e il duo “yankee” composto da Peter Gregg e Hurley Haywood nel 1973 e nel 1975), due 24 Ore di Le Mans (Herrmann e il britannico Richard Attwood nel 1970, l’austriaco Helmut Marko e l’olandese Gijs van Lennep nel 1971), due Targa Florio (Redman e Siffert nel 1970, Müller e van Lennep nel 1973) e un altro Rally di Monte Carlo con Waldegård nel 1970).Per quanto riguarda la produzione di serie si segnalano i debutti della cattivissima 911 Turbo (1975), disponibile solo con carrozzeria coupé e dotata di un motore 3.0 sovralimentato da 260 CV, e della 928 (1977), prima (e per il momento unica) Porsche ad aggiudicarsi – nel 1978 – il prestigioso riconoscimento di Auto dell’Anno.Le vittorie sportive di Porsche continuano anche in questi anni: tre 24 Ore di Le Mans (il belga Jacky Ickx e van Lennep nel 1976, Haywood, Ickx e il tedesco Jürgen Barth nel 1977 e il duo statunitense formato dai fratelli Bill e Don Whittington impreziosito dalla presenza del teutonico Klaus Ludwig nel 1979), tre Daytona (trio “yankee” con Haywood, John Graves e Dave Helmick nel 1977, Gregg, Stommelen e l’olandese Toine Hezemans nel 1978 e un altro trio “born in the USA” composto da Haywood, Ted Field e Danny Ongais nel 1979) e un Rally di Monte Carlo nel 1978 con il francese Jean-Pierre Nicolas.Gli anni OttantaLa prima metà del decennio è carente di novità di prodotto ma sempre ricca di successi: quattro Le Mans (1981 e 1982 con Ickx e il britannico Derek Bell, 1983 con i due piloti “born in the USA” Haywood e Al Holbert e l’australiano Vern Schuppan e 1984 con Ludwig e il transalpino Henri Pescarolo), quattro Daytona (tris tedesco di Stommelen, Reinhold Joest e Volkert Merl nel 1980, Redman con la coppia “yankee” composta da Bob Garretson e Bobby Rahal nel 1981, Stommelen con il duo padre/figlio statunitense John Paul Sr. e Jr. nel 1982 e la vittoria del 1983 con gli americani A.J. Foyt e Preston Henn e i francesi Claude Ballot-Lena e Bob Wollek) e addirittura una Dakar con il transalpino René Metge.Il modello di serie più significativo degli anni Ottanta per la Porsche è la supercar 959 del 1986: una coupé a trazione integrale dotata di un motore 2.8 a doppia sovralimentazione da 450 CV e prodotta in soli 288 esemplari. Questa vettura, la più evoluta del periodo, conquista una Dakar nel 1986 sempre con Metge.In quegli anni continuano le vittorie nel motorsport: quattro Daytona (Foyt, Wollek, il belga Thierry Boutsen e lo statunitense Al Unser nel 1985, Bell, Holbert e lo “yankee” Al Unser Jr. nel 1986, lo stesso trio più l’americano Chip Robinson nel 1987 e un equipaggio composto da Bell, Wollek e dallo statunitense John Andretti nel 1989) e tre Le Mans (1985 con Bell, Paolo Barilla e il tedesco John Winter e un doppio trionfo – nel 1986 e nel 1987 – con Bell, Holbert e il teutonico Hans-Joachim Stuck).Gli anni NovantaCon l’inizio degli anni Novanta la Porsche comincia a concentrarsi maggiormente sulla produzione di serie trascurando le corse: la 911 beneficia di numerosi miglioramenti tecnici e le uniche vittorie rilevanti arrivano nel 1991 (Daytona con Haywood, Pescarolo, Winter, Wollek e il tedesco Frank Jelinski) e nel 1994 (Le Mans con Haywood, Mauro Baldi e il francese Yannick Dalmas).Tra il 1996 e il 1998 arrivano gli ultimi tre successi nella prestigiosa 24 Ore transalpina: lo statunitense Davy Jones, il tedesco Manuel Reuter e l’austriaco Alexander Wurz nel 1996; Michele Alboreto, lo svedese Stefan Johansson e il danese Tom Kristensen nel 1997 e il britannico Allan McNish affiancato dal duo di Francia composto da Laurent Aïello e Stéphane Ortelli nel 1998. Nello stesso periodo viene lanciata la spider Boxster (prima auto della Casa di Zuffenhausen ad avere il raffreddamento a liquido).Il terzo millennioCon il terzo millennio la Porsche diventa una Casa automobilistica sempre più grande in grado di realizzare prodotti adatti a più tipologie di clienti: nel 2002 debutta la Cayenne (prima SUV del marchio) mentre l’anno seguente – in concomitanza con l’ultimo successo a Daytona ottenuto dai tedeschi Jörg Bergmeister e Timo Bernhard e dagli statunitensi Kevin Buckler e Michael Schrom – è la volta della Carrera GT, un concentrato di tecnica dotato di un motore 5.7 V10 da 612 CV.Nel 2009 – anno in cui viene inaugurato il museo della Casa di Stoccarda – tocca alla sportiva a quattro porte Panamera. Tre anni più tardi il marchio viene acquistato interamente dalla Volkswagen, nel 2013 vengono presentate la supercar ibrida 918 (887 CV e consumi dichiarati pari a 30,3 km/l) e la Sport Utility compatta Macan.

Fonte
Centenario Maserati: un raduno per festeggiare
Dal 18 al 20 settembre 2014 si terrà il Raduno Internazionale del Centenario Maserati: un appuntamento irrinunciabile per gli appassionati del marchio del Tridente che attraverserà buona parte del Nord Italia.L’evento inizierà giovedì 18 settembre 2014 a Modena: nel capoluogo emiliano saranno esposti i modelli storici e attuali che parteciperanno alla manifestazione. Nel pomeriggio sono previste due visite: la prima alla mostra dedicata ai 100 anni di vita del brand presso il Museo Casa Enzo Ferrari, la seconda allo storico stabilimento di Viale Ciro Menotti (dove attualmente vengono assemblate le GranTurismo, le GranCabrio e l’Alfa Romeo 4C) dove si terrà una cena.Venerdì 19 settembre 2014 le vetture protagoniste del Raduno Internazionale del Centenario Maserati si sposteranno verso l’autodromo di San Martino del Lago, dove effettueranno delle sessioni in pista. Un omaggio a Baconin Borzacchini, pilota che il 28 settembre 1929 stabilì a Cremona con una V4 a 16 cilindri il record mondiale sui 10 chilometri lanciati. La carovana compirà poi una passerella per le strade del capoluogo lombardo e successivamente si trasferirà a Torino: esposizione in Piazza Castello e cena di gala alla Reggia di Venaria.La mattina di sabato 20 settembre 2014 ci sarà la visita allo stabilimento Avv. Giovanni Agnelli dove nascono le Ghibli e le Quattroporte, seguita dall’ultimo tratto della gara di regolarità in direzione della Basilica di Superga e – nel pomeriggio – dal Concorso d’eleganza in Piazza San Carlo.Il Raduno Internazionale del Centenario Maserati – per maggiori informazioni www.maserati100.it (in italiano) e www.maserati100.com (in inglese) – avrà un prologo a Bologna mercoledì 17 settembre, giorno in cui i collezionisti delle sportive del Tridente potranno farsi fotografare con la propria auto accanto alla Fontana del Nettuno e vedere il luogo – via de’ Pepoli 1 – dove nacque il brand emiliano.

Fonte
Alfa Romeo 8C 2300: vinse tutto negli anni Trenta
L’Alfa Romeo 8C 2300 ha dominato il motorsport nella prima metà degli anni Trenta: tra il 1931 e il 1934 la vettura da corsa del Biscione ha vinto tutto quello che si poteva vincere, su strada e in pista. Scopriamo insieme la sua storia.Alfa Romeo 8C 2300: la storiaL’Alfa Romeo 8C 2300 viene progettata all’inizio degli anni Trenta da Vittorio Jano: il suo punto di forza è senza dubbio il motore – un 2.3 a otto cilindri in linea con compressore Roots molto elastico in grado di offrire una spinta impressionante a qualsiasi regime – ma non mancano altre soluzioni tecniche molto interessanti.L’albero motore – ad esempio – è realizzato in due parti, separate da due ingranaggi cilindrici a dentatura elicoidale: uno comanda il compressore (posizionato contro il fianco destro del carter), l’altro l’albero a camme. Una scelta adottata per ridurre le sollecitazioni di torsione.1931L’Alfa Romeo 8C 2300 debutta in gara alla Mille Miglia del 1931 (11-12 aprile) ma non vince a causa di numerose forature. Il riscatto arriva un mese più tardi alla Targa Florio con Tazio Nuvolari.Due settimane più tardi, in occasione del GP d’Italia, Jano allestisce una versione della 8C con un telaio più corto di 10 centimetri e dotata di 195 CV: questa vettura – guidata da Giuseppe Campari e Nuvolari – conquista la vittoria e viene soprannominata Monza in onore del circuito che l’ha vista trionfare.Nel mese di giugno arriva un altro successo importantissimo per l’Alfa Romeo 8C 2300 – la 24 Ore di Le Mans – ottenuta grazie al duo britannico composto da Earl Howe e Henry Birkin.1932La primavera del 1932 continua a portare vittorie rilevanti al Biscione: ad aprile Baconin Borzacchini (al volante di un esemplare carrozzato Touring) permette alla 8C di conquistare la prima Mille Miglia, a maggio Nuvolari vince la sua seconda Targa Florio e a giugno il francese Raymond Sommer e Luigi Chinetti salgono sul gradino più alto del podio di Le Mans.1933Anche nel 1933 l’Alfa Romeo 8C 2300 ottiene lo stesso “triplete” dell’anno precedente: Mille Miglia ad aprile (con una versione Zagato guidata da Nuvolari), Targa Florio a maggio (Antonio Brivio) e Le Mans a giugno con la coppia Sommer-Nuvolari.1934L’ultima vittoria rilevante della 8C è quella conquistata dal transalpino Philippe Étancelin e da Chinetti alla 24 Ore di Le Mans, la quarta consecutiva per la Casa del Biscione.

Fonte
Eiji Toyoda, l’uomo che rese grande la Toyota
Eiji Toyoda può essere considerato uno dei manager automobilistici più importanti della storia. Sotto la sua guida, infatti, la Toyota è diventata una potenza planetaria: merito soprattutto dei rivoluzionari metodi adottati per produrre le vetture da lui ideati. Scopriamo insieme la sua storia.Eiji Toyoda: la biografiaEiji Toyoda nasce il 12 settembre 1913 a Nagoya (Giappone). Dopo aver studiato ingegneria meccanica all’Università di Tokyo dal 1933 al 1936 torna nella città natale per aiutare il cugino Kiichiro, che ha da poco creato nell’azienda di famiglia (specializzata nella produzione di telai per la tessitura) una fabbrica di automobili. Due anni più tardi si ritrova a supervisionare la costruzione di un nuovo stabilimento, in una cittadina che vent’anni più tardi verrà ribattezzata Toyota City.Rivoluzione nell’autoDopo una visita agli stabilimenti Ford negli anni Cinquanta Eiji decide di introdurre nelle sue fabbriche automobilistiche in Giappone i metodi di produzione di massa statunitensi apportando però numerosi miglioramenti per ottimizzare i processi aziendali incrementando la produttività: grazie alla consulenza di Taiichi Ohno inventa, ad esempio, il sistema Kanban per la reintegrazione delle scorte mano a mano che vengono consumate.La Toyota si espande in tutto il mondo e sul finire degli anni Sessanta (quando Eiji Toyoda diventa presidente della società) rieasce a conquistare anche il difficile mercato nordamericano. Nel 1981 Eiji diventa amministratore delegato e due anni più tardi prende la decisione di creare un brand totalmente nuovo – Lexus, arrivato sul mercato nel 1989 – per competere con le tedesche nel settore delle auto di lusso.Gli ultimi anniEiji abbandona l’azienda nel 1994 e negli ultimi anni della sua vita si ritrova spesso in ospedale per problemi all’anca. Scompare a Toyota City (Giappone) il 17 settembre 2013, cinque giorni dopo il suo 100° compleanno.

Fonte
Dalla Continental R alla Continental GT, la storia delle coupé moderne Bentley
Eleganza e prestazioni: sono queste, da sempre, le caratteristiche che contraddistinguono le coupé Bentley. Dagli anni Novanta ad oggi la Casa britannica ha lanciato una serie di supercar tanto lussuose quanto performanti, sportive di razza utilizzabili tranquillamente tutti i giorni.La seconda generazione della Continental GT – il modello attualmente in listino – viene presentato al Salone di Parigi del 2010 e debutta nelle nostre concessionarie l’anno seguente. Il design è un’evoluzione di quello dell’antenata, così come il motore: un 6.0 W12 a doppia sovralimentazione da 575 CV. Nel 2012 la gamma si arricchisce con le varianti V8 (dotata di un propulsore 4.0, sempre biturbo, da 507 CV) e Speed (una W12 con 625 CV).L’ultima evoluzione nel listino delle coupé Bentley arriva nel 2014 con il lancio della Continental GT V8 S, variante più cattiva (529 CV) della V8. Scopriamo insieme la storia delle antenate di questa vettura.Bentley Continental R (1991)La Continental R – svelata al Salone di Ginevra del 1991 – è la prima Bentley dagli anni Sessanta a non avere una “gemella” marchiata Rolls-Royce. Realizzata sullo stesso pianale dell’ammiraglia Turbo R, monta anche lo stesso motore: un 6.750 V8 da 320 CV abbinato ad un inedito cambio automatico a quattro rapporti di origine General Motors.Nel 1993 la cilindrata del propulsore cresce (da 6.753 a 6.761 cc), così come la potenza, che arriva a quota 360 CV. I puledri aumentano ulteriormente nel 1996: prima a 389 CV e dopo pochi mesi a 407 CV. Il 1998 è l’anno di debutto della versione sportiva Mulliner da 426 CV.La gamma della Bentley Continental R si arricchisce nel 1999 con il lancio dell’esclusiva SC, disponibile nelle versioni “normale” (Sedanca) e Mulliner. Nel 2001 è la volta della Le Mans Series mentre nel 2003 tocca alla Mulliner Final Series.Bentley Continental S (1994)La Bentley Continental S del 1994, prodotta in soli 37 esemplari, ospita sotto il cofano un propulsore da 6.749 cc e 408 CV e rimane in commercio solo per un anno.Bentley Continental T (1996)La Bentley Continental T del 1996 non è altro che una Continental R più adatta a clienti sportivi: il passo accorciato di 10 cm, la carrozzeria allargata e il motore più potente (426 CV) garantiscono un piacere di guida superiore.Bentley Continental GT prima generazione (2003)La prima generazione della Continental GT – presentata al Salone di Ginevra del 2003 – è la prima Bentley realizzata interamente sotto la supervisione del Gruppo Volkswagen, proprietario del marchio dal 1998. Dotata di trazione integrale, ha un pianale che condivide molti elementi con quello dell’ammiraglia “made in Wolfsburg” Phaeton.L’unico motore disponibile al lancio è un possente 6.0 W12 da 559 CV e la gamma si arricchisce nel 2006 con l’arrivo della versione Diamond Series, prodotta in soli 300 esemplari per celebrare i 60 anni dello stabilimento di Crewe e contraddistinta da freni carboceramici, cerchi in lega da 20”, tinte inedite e targhette identificative.Nel 2008 la Bentley Continental GT si mette a dieta: grazie ad una serie di modifiche tecniche il peso cala di 35 chilogrammi. Nello stesso anno la Diamond Series esce di scena e sbarca in listino la “cattivissima” Speed: 610 CV, assetto ribassato e un aspetto più grintoso.La variante Supersports, mostrata al Salone di Ginevra del 2009, rimane l’unica Continental GT prima serie in listino dal 2010 al 2012. Il motore – che può essere alimentato anche a etanolo – genera 630 CV e i posti a sedere sono solo due.Bentley Brooklands Coupé (2008)La Brooklands Coupé – presentata al Salone di Ginevra del 2007 e commercializzata dal 2008 – nasce per conquistare i clienti Bentley più tradizionalisti. Non è altro che la variante a due porte dell’ammiraglia Arnage e sotto il cofano ospita il noto motore 6.750 biturbo portato a 537 CV. Realizzata in 550 esemplari, sparisce dai listini già nel 2009.

Fonte
Maruti Suzuki 800 (1990): l’indiana che conquistò l’Italia
Nella prima metà degli anni ’90 la Maruti Suzuki 800 conquistò a sorpresa gli automobilisti italiani al punto da diventare la citycar più venduta dopo le Fiat Cinquecento e Panda. La “baby” indiana – di origine giapponese – aveva due punti di forza da non sottovalutare: le cinque porte (nessun’altra rivale le offriva all’epoca) e un eccellente rapporto qualità/prezzo.La maggior parte degli esemplari commercializzati nel nostro Paese è stato rottamato ma non è raro trovare delle “sopravvissute”, specialmente al Sud. Non ha un futuro come auto d’epoca e le sue quotazioni sono molto basse – 500 euro – ma resta una vettura rimasta nel cuore di chi è nato negli anni Settanta, specialmente di chi l’ha posseduta e ha mosso i primi passi nel mondo delle quattro ruote proprio con lei.Maruti Suzuki 800 (1990): le caratteristiche principaliLa Maruti Suzuki 800 debutta in Italia nel 1990 e non è altro che una seconda generazione della Suzuki Alto (svelata in Giappone ben sei anni prima) riveduta e corretta e assemblata in India. Tre gli allestimenti disponibili al lancio: il “base”, il completo De Luxe (con il condizionatore) e il ricchissimo, pure troppo, Super De Luxe che può vantare persino gli interni in pelle.Nonostante le dimensioni esterne compatte – 3,30 metri di lunghezza, 11 cm in meno di una Fiat Panda prima serie – offre le porte posteriori e un discreto spazio per i passeggeri (a patto che non siano troppo alti). Il bagagliaio, invece, non è il massimo.Le finiture non sono il punto di forza della Maruti Suzuki 800: la plancia è realizzata con plastiche rigide e ha un design datato. Il discorso cambia quando si inizia a guidarla: in città la citycar indiana si trova completamente a proprio agio e non disdegna le gite fuoriporta. Merito di sospensioni morbide e di un comportamento stradale rassicurante e a tratti divertente quando si esagera con il pedale dell’acceleratore.La tecnicaIl motore 800 tre cilindri a benzina da 35 CV, pur essendo aspirato, offre un discreto brio già a partire dai 2.000 giri. Offre prestazioni interessanti (130 km/h di velocità massima) e il suo unico difetto rilevante è l’eccessiva rumorosità.I consumi della Maruti Suzuki 800 sono nella media del segmento (12,7 km/l dichiarati nel ciclo urbano) ma aumentano considerevolmente nei viaggi autostradali: colpa soprattutto del cambio, con sole quattro marce e quindi privo di un quinto rapporto “di riposo”.Le quotazioniSolo chi ha posseduto questa vettura in passato può essere interessato a ricomprarla: per queste persone il valore affettivo nei confronti della “baby” indiana supera abbondantemente le quotazioni ufficiali di 500 euro.Dal punto di vista storico, tuttavia, la Maruti Suzuki 800 del 1990 resta un mezzo interessante in quanto è stato il primo a dimostrare che le citycar non erano “figlie di un dio minore” ma automobili degne di rispetto che potevano essere lussuose e confortevoli come le sorelle maggiori.

Fonte




