Category Archives: Auto Classiche
Alvis TC 21 Drophead (1953): eleganza british
La Alvis TC 21 Drophead è una cabriolet sconosciuta in Italia: nel suo Paese d’origine (il Regno Unito), invece, è molto usata nei matrimoni, si trova senza problemi e ha quotazioni comprese tra 30.000 e 40.000 euro.Alvis TC 21 Drophead (1953): le caratteristiche principaliLa Alvis TC 21 Drophead, prodotta dal 1953 al 1955, è una scoperta a quattro posti contraddistinta da uno stile tipicamente britannico: una vera rarità per l’epoca visto che nel secondo dopoguerra le Case inglesi tendevano a scimmiottare nello stile le auto statunitensi.Evoluzione della TA Drophead (costruita dal 1950 al 1953) e realizzata dal noto carrozziere Tickford è un’auto elegante, veloce e con finiture di buon livello (legno e pelle a profusione). I freni, invece, non sono molto potenti e la strumentazione centrale è un po’ troppo piccola.Alvis TC 21 Drophead (1953): la tecnicaIl motore della Alvis TC 21 Drophead del 1953 è un 3.0 a sei cilindri in linea da 95 CV abbinato ad un cambio manuale a quattro marce: questa unità permette alla cabriolet “british” di raggiungere una velocità massima di 90 miglia orarie (145 km/h). La versione più sportiva Grey Lady – nota anche con la denominazione TC 21/100 – tocca invece le 100 miglia orarie (161 km/h): merito del propulsore potenziato (102 CV) e di una rapportatura della trasmissione ottimizzata.Alvis TC 21 Drophead (1953): le quotazioniLa Alvis TC 21 Drophead più interessante dal punto di vista storico è la Grey Lady, semplice da rintracciare a circa 40.000 euro. Per le versioni meno potenti bastano invece 30.000 euro.

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Dalla Giulietta alla Giulia, la storia delle berline Alfa Romeo
Da sessant’anni le berline Alfa Romeo accompagnano gli automobilisti (soprattutto italiani) che cercano un mezzo spazioso e non possono rinunciare alla sportività.L’ultima evoluzione della famiglia delle “segmento D” del Biscione – la seconda generazione della Giulia – sarà commercializzata fra pochi mesi inizialmente solo nella versione sportiva Quadrifoglio: trazione posteriore, distribuzione dei pesi 50:50 e un possente motore a sei cilindri da ben 510 CV che le consente di accelerare da 0 a 100 km/h in soli 3,9 secondi. Scopriamo insieme la storia delle antenate di questo modello.Alfa Romeo Giulietta prima generazione (1955)La prima generazione della Giulietta – svelata nel 1955 – rappresenta una svolta per l’Alfa Romeo: con questo modello, infatti, la Casa lombarda si trasforma in un marchio capace di produrre auto in grande serie. Il progetto – iniziato nel 1951 – coinvolge i più grandi tecnici dell’epoca: Giuseppe Busso lavora sul motore, Orazio Satta Puliga si occupa del telaio mentre Rudolf Hruska supervisiona l’ingegnerizzazione.Per recuperare i fondi necessari per lo sviluppo vengono avviate una sottoscrizione pubblica e una lotteria, nel 1953 il propulsore è già pronto ma a causa di problemi riguardanti l’insonorizzazione dell’abitacolo si decide di presentare prima la variante Coupé (di cui parleremo in un’altra occasione), in quanto i vertici del Portello ritengono che i clienti di una sportiva “sopportino meglio” il rumore.L’Alfa Romeo Giulietta prima generazione viene ufficialmente presentata al Salone di Torino del 1955 e conquista subito il pubblico grazie a numerosi pregi: prestazioni brillanti offerte dall’unico motore al lancio (un 1.3 da 53 CV), consumi relativamente contenuti, piacere di guida elevato e grande spazio interno.Nel 1957 è la volta della versione grintosa TI (65 CV) mentre due anni più tardi arriva un restyling, mostrato al Salone di Francoforte, che porta un muso rivisto e una strumentazione più completa. In occasione del secondo lifting del 1961 la potenza della versione “base” sale fino a 63 CV mentre quella della TI raggiunge quota 73 CV.Alfa Romeo Giulia prima generazione (1962)La prima generazione dell’Alfa Romeo Giulia nasce nel 1962 e si distingue dall’antenata Giulietta per un design molto aerodinamico che garantisce velocità massime particolarmente elevate. La prima versione a vedere la luce, la TI, ospita sotto il cofano un motore 1.6 da 92 CV (bialbero in alluminio con valvole di scarico raffreddate al sodio) abbinato ad un cambio manuale a cinque marce con leva al volante e può ospitare sei passeggeri grazie al divano anteriore in un pezzo unico.Rlsale al 1963 la TI Super: prodotta in soli 501 esemplari per ottenere l’omologazione per correre nelle gare Turismo e sparita dal listino già nel 1964, monta un propulsore 1.6 da 112 CV preso in prestito dalla SS Coupé, può vantare una leva del cambio tradizionale ed è più leggera grazie alla dotazione di serie più spartana e all’adozione di materiali come l’alluminio (per i cofani e le portiere) e il plexiglas (lunotto e finestrini posteriori).Il primo aggiornamento per la prima generazione dell’Alfa Romeo Giulia arriva nel 1964 quando la TI guadagna i quattro freni a disco, i cinque posti e il cambio tradizionale. Nello stesso anno debutta la 1.3 da 78 CV abbinata ad una trasmissione manuale a quattro marce. L’anno seguente è la volta della 1.3 TI da 82 CV con cinque marce e della Super (1.6 da 112 CV e finiture più curate).Nel 1967 la 1.6 TI viene rimpiazzata dalla S (95 CV e totale assenza di cromature), nel 1969 la potenza della Super sale fino a quota 116 CV mentre nel 1970 è la volta della 1.3 Super da 103 CV.Il restyling della prima generazione dell’Alfa Romeo Giulia del 1971 porta diverse modifiche estetiche (la più rilevante riguarda la mascherina nera) e una gamma profondamente rivista composta da due soli motori: un 1.3 da 103 CV e un 1.6 da 116 CV. Nel 1974 tocca ad un secondo lifting: la Nuova Super si distingue per la mascherina in plastica, per i sedili con poggiatesta e per la plancia ridisegnata. La prima auto a gasolio nella storia del Biscione – la Giulia Diesel (dotata di un propulsore 1.8 a gasolio realizzato dall’azienda britannica Perkins in grado di generare solo 55 CV di potenza) – nasce nel 1976.Alfa Romeo Giulietta seconda generazione (1977)La seconda generazione dell’Alfa Romeo Giulietta nasce nel 1977 per sostituire la Giulia: realizzata sulla stessa base della sorella maggiore Alfetta, presenta al lancio motori (un 1.3 da 95 CV e un 1.6 da 109 CV) meno potenti.Nel 1979 debutta un 1.8 da 122 CV mentre due anni più tardi, in concomitanza con il primo restyling (paraurti in plastica, mascherina ridisegnata e plancia rivista), arriva un 2.0 da 130 CV. Il secondo lifting che coinvolge il frontale, la coda e l’abitacolo risale al 1983, anno in cui abbandonano le scene il 1.3 e il due litri e nel quale sbarca il listino un 2.0 turbodiesel da 82 CV.Nel 1984 debutta in commercio la turbodelta, versione sportiva della seconda generazione dell’Alfa Romeo Giulietta caratterizzata dalla presenza sotto il cofano di un propulsore 2.0 da 170 CV. Questa unità sparisce già l’anno seguente insieme al 1.8.Alfa Romeo 75 (1985)La 75 nasce nel 1985, in un periodo di crisi per l’Alfa Romeo: la Casa del Biscione non può permettersi di sviluppare una berlina completamente nuova e per questa ragione viene deciso di sfruttare ancora il pianale della Alfetta e addirittura la carrozzeria della Giulietta. I designer del marchio lombardo riescono a nascondere le somiglianze con l’antenata (il profilo delle portiere, ad esempio, è identico) grazie soprattutto all’introduzione di un fascione in plastica che corre lungo tutta la linea di cintura.La gamma motori al lancio comprende cinque unità: quattro a benzina (1.6 da 110 CV, 1.8 da 120 CV, 2.0 da 128 CV e 2.5 Quadrifoglio Verde da 156 CV) e un 2.0 turbodiesel da 95 CV. Nel 1986 debutta un 1.8 turbo da 155 CV, affiancato l’anno seguente – in concomitanza con la presentazione delle versioni America (paraurti ad assorbimento di energia e serbatoio più capiente) e Turbo Evoluzione (500 esemplari della 1.8 turbo creati per correre nel Gruppo A con cilindrata di 1.762 cc anziché 1.779) – da un 2.0 Twin Spark da 148 CV e da un 3.0 V6 da 185 CV.In occasione del restyling del 1988 l’Alfa Romeo 75 si presenta con la calandra rivista, con i gruppi ottici posteriori rossi e con la strumentazione ridisegnata: Il 2.0 da 128 CV e il 2.5 abbandonano le scene e arriva un 2.4 turbodiesel da 110 CV. Nel 1989 la potenza del 1.6 scende a 105 CV e sbarcano in listino un 2.0 TS da 141 CV e un 3.0 V6 da 178 CV.Il 1990 è l’anno in cui debuttano in listino il 1.6 da 103 CV e il 1.8 da 118 CV, la potenza del 1.8 turbo sale a quota 165 CV e il 3.0 V6 diventa disponibile in una sola variante di potenza (189 CV). Nel 1992 la gamma propulsori si riduce drasticamente (1.6 a benzina da 103 e 105 CV e 2.0 TD da 95 CV) e dal 1993 diventa disponibile solo l’unità a ciclo Otto meno spinta.Alfa Romeo 155 (1992)La 155 del 1992 delude gli appassionati Alfa Romeo: sparisce la trazione posteriore e arriva un pianale a trazione anteriore condiviso con le Fiat Tipo e Tempra e con la Lancia Dedra. La gamma motori al lancio comprende quattro unità a benzina (1.8 da 126 CV, 2.0 da 141 e 186 CV – quest’ultimo turbo e abbinato alla trazione integrale – e 2.5 V6 da 165 CV).Altri propulsori (1.7 da 116 CV e due turbodiesel: 1.9 da 90 CV e 2.5 da 125 CV) arrivano nel 1993 (anno nel quale la potenza del V6 scende a 163 CV) mentre il restyling (paraurti verniciati e strumentazione riprogettata) arriva nel 1995, quando la potenza del 2.0 a benzina viene portata fino a quota 150 CV.Nel 1996 il 1.7 e il 1.8 dell’Alfa Romeo 155 cedono il posto ad un 1.6 da 120 CV e ad un 1.8 da 140 CV e nel 1997 abbandonano il listino tutti i motori con potenze di oltre 150 CV.Alfa Romeo 156 (1997)L’Alfa Romeo 156, una delle auto più belle del XX secolo (disegnata da Walter de Silva), è il simbolo della rinascita delle berline del Biscione dopo il flop della 155: stile affascinante (impreziosito dalle maniglie posteriori “nascoste”) e pianale inedito (una profonda evoluzione di quello dell’antenata che verrà adottato anche dalla sorella minore 147). Debutta al Salone di Francoforte del 1997 e l’anno seguente è la prima vettura della Casa lombarda ad aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento di Auto dell’Anno.La gamma motori al lancio, molto ricca, comprende sei unità: quattro a benzina (1.6 da 120 CV, 1.8 da 144 CV, 2.0 da 155 CV e 2.5 V6 da 190 CV) e due turbodiesel JTD (1.9 da 105 CV e 2.4 da 136 CV). La “segmento D” del Biscione è, insieme alla Mercedes classe C, la prima auto della storia dotata della tecnologia common rail, ora presente su tutti i propulsori a gasolio in commercio.La famiglia dell’Alfa Romeo 156 si allarga nel 2000 con l’arrivo della variante station wagon Sportwagon: nello stesso anno si assiste ad un calo di potenza di due unità a benzina (1.8 da 140 CV e 2.0 da 150 CV) e ad un incremento della cavalleria dei due JTD (1.9 da 110 CV e 2.4 da 140 CV). L’anno seguente aumenta ancora – fino a 116 CV – la potenza del propulsore quattro cilindri a gasolio.Il 2002 è l’anno in cui la plancia beneficia di alcuni leggeri cambiamenti ma la novità più rilevante è senza dubbio il debutto della sportivissima versione GTA, dotata di un motore 3.2 V6 da 250 CV. Nello stesso anno (caratterizzato dallo sbarco nel listino di un 1.6 a benzina da 110 CV) il 2.0 da 150 CV viene sostituito da un due litri JTS (iniezione diretta di benzina) da 165 CV, il propulsore a gasolio da 140 CV diventa un 1.9 e la potenza del 2.4 JTD raggiunge quota 150 CV.L’Alfa Romeo 156 beneficia di un profondo restyling (opera di Giorgetto Giugiaro) nel 2003: anno nel quale abbandona le scene il 1.6 da 110 CV in concomitanza con il leggerissimo calo di potenza del 2.0 JTS (165 CV) e con l’incremento di cavalli (175) del 2.4 a gasolio. L’anno successivo è la volta di un 1.9 JTD da 150 CV (disponibile anche in abbinamento alla trazione integrale) e della Crosswagon, una Sportwagon 4×4 con assetto rialzato.Nel 2005 spariscono il 2.5 V6 e il 1.9 JTD da 140 CV mentre nel 2006 rimangono in commercio esclusivamente la Sportwagon e la Crosswagon 1.9 JTD 150 CV.Alfa Romeo 159 (2005)L’Alfa Romeo 159, disegnata da Giorgetto Giugiaro, ha un nome che omaggia la monopospo capace di far vincere il Mondiale F1 Piloti all’argentino Juan Manuel Fangio. Dotata di un pianale inedito, ha una gamma motori al lancio composta da quattro unità ad iniezione diretta: due JTS a benzina (1.9 da 160 CV e 2.2 da 185 CV) e due 1.9 turbodiesel JTDm da 120 e 150 CV.In occasione del lancio della station wagon Sportwagon nel 2006 arrivano altri tre propulsori – due a benzina (1.8 da 140 CV e 3.2 V6 da 260 CV) e un 2.4 JTDm da 200 CV – affiancati nel 2007 da un 2.4 a gasolio da 209 CV.Nel 2008 – anno in cui il JTDm da 200 CV abbandona il listino – l’Alfa Romeo 159 beneficia di una riduzione di peso e guadagna il sistema Q2, che simula il comportamento di un differenziale autobloccante, mentre l’anno successivo arrivano un 1.750 TBi turbo a benzina da 200 CV e un due litri a gasolio da 170 CV. Questi due propulsori, insieme ad un 2.0 JTDm da 136 CV, restano gli unici della gamma nel 2010 mentre dal 2011 è possibile acquistare la berlina del Biscione esclusivamente con un propulsore diesel.

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Emil Jellinek: il padre della Mercedes
Emil Jellinek può essere considerato il “padre” della Mercedes: se la Casa della Stella ha questo nome deve, infatti, ringraziare la figlia di questo imprenditore e diplomatico austro-ungarico. Scopriamo insieme la sua storia.Emil Jellinek, la biografiaEmil Jellinek nasce a Lipsia (Germania) il 6 aprile 1853. Figlio di un rabbino austriaco, si trasferisce a Vienna poco dopo la nascita. Nel 1870 trova lavoro in un’azienda ferroviaria della Moravia ma viene licenziato nel 1872 quando i suoi responsabili scoprono che organizza corse clandestine tra treni. Nello stesso anno la famiglia si trasferisce in Francia e grazie alla raccomandazione del padre trova un posto come diplomatico in Marocco.Nel 1874 torna a Vienna per svolgere il servizio militare ma dopo essere stato scartato in quanto non idoneo diventa viceconsole austro-ungarico a Orano (in Algeria), dove si occupa anche di commerciare tabacco in Europa. Nel 1881 ritorna temporaneamente in Austria per aprire un ufficio della compagnia assicurativa Aigle e vi si stabilisce nel 1884.Nasce MercedesIl 16 settembre 1889 nasce Mercedes Jellinek: Emil, molto scaramantico, userà il nome della sua prima figlia per tutte le sue attività. Quattro anni più tardi, dopo essere rimasto vedovo, accumula un’ingente fortuna grazie all’attività di assicuratore: si sposta a Nizza e lì entra in contatto con l’aristocrazia che bazzica la Costa Azzurra e con il mondo delle automobili.Diventa rivenditore di veicoli a quattro ruote, nel 1896 si reca a Stoccarda per visitare gli stabilimenti della DMG (Daimler Motoren Gesellschaft) e per conoscere Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach e due anni più tardi viene nominato importatore ufficiale per la Francia del marchio teutonico.Nasce la MercedesNel 1899 Emil Jellinek inizia a gareggiare nel sud della Francia con auto DMG per far conoscere il marchio al pubblico facoltoso e l’anno dopo, in seguito alla morte di Gottlieb Daimler, convince i vertici della Casa tedesca a continuare ad impegnarsi nelle corse.Commissiona a Maybach (offrendogli 550.000 marchi) il progetto di un’auto da gara dotata di baricentro basso, di passo lungo e di carreggiate allargate e si impegna ad acquistare 36 esemplari di questo modello, chiamato Mercedes 35PS. La vettura, contraddistinta da un propulsore 5.9 a quattro cilindri da 35 CV, si rivela rapida e competitiva: il successo più importante arriva nel 1903 quando il belga Camille Jenatzy conquista al volante di una 65PS (evoluzione della 35: motore 9.3 da 65 CV) la Coppa Gordon Bennett in Irlanda.Gli ultimi anniIn occasione dello scoppio della Prima Guerra Mondiale Emil Jellinek si rifugia in Francia ma viene arrestato per spionaggio a favore della Germania. Nello stesso periodo gli austro-ungarici (alleati dei tedeschi) accusano la moglie di spionaggio a favore della Francia. Nel 1917 viene rilasciato, si trasferisce in Svizzera – più precisamente a Ginevra – e lì perde la vita il 21 gennaio 1918.

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Mitsubishi, la storia a quattro ruote
La Mitsubishi è una delle più grandi multinazionali giapponesi: attiva dal 1870, copre oggi tantissimi settori industriali (metallurgia, chimica, finanza, elettronica, etc…) e non tutti sanno che possiede anche diversi brand molto noti in Italia come Nikon (macchine fotografiche) e Kirin (birra).Questo colosso nipponico ha iniziato ad occuparsi di automobili nel 1917 – prima di qualsiasi altro costruttore del Sol Levante – e ha saputo conquistare il pubblico grazie a vetture tecnologicamente innovative e ricche di sostanza (specialmente nel segmento delle SUV) e ai successi sportivi ottenuti nel WRC e alla Dakar. Scopriamo insieme la storia a quattro ruote del marchio dei “tre diamanti”.Mitsubishi, la storia a quattro ruoteLa Mitsubishi, colosso giapponese impegnato dal 1870 in tre settori chiave (costruzioni navali, finanza e miniere), decide di cimentarsi nel mondo delle quattro ruote costruendo nel 1917 la prima automobile nipponica di serie di sempre. La Model A, ispirata alla Fiat Tipo 3, è dotata di un motore 2.8 a quattro cilindri da 36 CV: piuttosto costosa da produrre per via dell’assemblaggio artigianale, viene realizzata in soli 22 esemplari.Addio (temporaneo) alle autoNel 1921 la Casa nipponica abbandona le auto per concentrarsi sui veicoli industriali: la PX33 creata per l’esercito giapponese nel 1936 è il primo veicolo del Sol Levante a trazione integrale. Durante la Seconda Guerra Mondiale gli stabilimenti vengono pesantemente bombardati ma l’azienda si risolleva nel 1953 grazie ad un accordo siglato con la Willys-Overland per la produzione su licenza della Jeep CJ3B.Gli anni Sessanta e SettantaLa Mitsubishi torna a produrre automobili nel 1960: la prima è la 500, dotata al lancio di un propulsore bicilindrico da 0,5 litri e 20 CV. Nel corso degli anni Sessanta il brand nipponico realizza vetture sempre più grandi fino ad arrivare, nel 1969, alla Galant: una compatta lunga poco più di quattro metri disponibile in tre varianti di carrozzeria (berlina a due o quattro porte e station wagon).Nel 1970 la divisione automobilistica Mitsubishi diventa più indipendente (nasce la Mitsubishi Motors) e l’anno seguente – grazie ad un accordo con Chrysler (che prevede la cessione del 15% dell’azienda al colosso “yankee”) – le prime Galant vengono vendute negli USA con il nome Dodge Colt. Risale invece al 1976 la tecnologia Silent Shaft: un sistema brevettato che riduce le vibrazioni sui motori a quattro cilindri e che viene venduto a Fiat, Porsche e Saab.Il mito PajeroNel 1982 – anno in cui Mitsubishi sbarca ufficialmente negli States – nasce la SUV (anche se sarebbe meglio chiamarla fuoristrada) Pajero. Il modello più famoso della Casa giapponese inizia a farsi conoscere nel 1985 quando diventa la prima vettura non europea ad aggiudicarsi la Dakar (più precisamente la Parigi-Algeri-Dakar, al volante il francese Patrick Zaniroli).Gli anni ’90Gli anni Novanta sono il periodo più ricco di soddisfazioni per il marchio del Sol Levante: nel 1990 gli ingegneri Mitsubishi inventano il controllo della trazione e realizzano la sportiva 3000 GT (dotata di un motore 3.0 V6 a doppia sovralimentazione da 286 CV) mentre l’anno successivo viene firmato un accordo con la Volvo per produrre in Olanda una berlina (la Carisma, nata nel 1995 e realizzata sullo stesso pianale della S40). Nel biennio 1992-1993 arrivano due vittorie consecutive alla Dakar con i transalpini Hubert Auriol (Parigi-Sirte-Città del Capo) e Bruno Saby.Tra il 1996 (anno di debutto del motore GDI ad iniezione diretta di benzina) e il 1999 la berlina Mitsubishi Lancer domina nel WRC: quattro Mondiali Piloti consecutivi con il finlandese Tommi Mäkinen e un titolo Costruttori nel 1998 con la Evolution V. Nello stesso periodo arrivano due trionfi alla Dakar: nel 1997 alla Dakar-Agades-Dakar con il giapponese Kenjiro Shinozuka (primo driver non europeo a trionfare nel rally raid più famoso del mondo) e nel 1998 – anno di lancio della piccola Sport Utility Pajero Pinin realizzata in collaborazione con Pininfarina e assemblata anche in Italia – con il francese Jean-Pierre Fontenay.Il terzo millennioIl 2000 si apre con un’alleanza con DaimlerChrysler – terminata nel 2004 – che porta alla realizzazione di numerosi progetti comuni ma gli anni Duemila sono contraddistinti soprattutto dalle sette vittorie consecutive alla Dakar: 2001 con la tedesca Jutta Kleinschmidt, 2002 (Arras-Madrid-Dakar) con il giapponese Hiroshi Masuoka (che trionfa anche nel 2003 alla Marsiglia-Sharm el-Sheikh), 2004 (Clermont-Ferrand-Dakar), 2005 (Barcellona-Dakar) e 2007 (Lisbona-Dakar) con il transalpino Stéphane Peterhansel e 2006 (Lisbona-Dakar) con il connazionale Luc Alphand.Nel 2005 viene siglato un accordo tra Mitsubishi e PSA Peugeot Citroën: nascono la seconda generazione della SUV Outlander (gemella di C-Crosser e 4007), la citycar elettrica i-MiEV del 2009 (identica alla C-Zero e alla iOn) e la ASX del 2010 (sorella della C4 Aircross).La vettura della Casa dei tre diamanti più interessante tra quelle presenti nella gamma attuale è invece la Outlander PHEV, una Sport Utiility ibrida plug-in a benzina che dichiara consumi pari a 52,6 km/l.

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Standard Ten (1954): l’utilitaria di sua maestà
La Standard Ten del 1954 è una piccola britannica interessante dal punto di vista storico solo in quanto vincitrice del RAC Rally del 1955. Facile da trovare nel Regno Unito, ha quotazioni che si aggirano intorno ai 4.000 euro (quasi il doppio per gli esemplari restaurati).Standard Ten (1954): le caratteristiche principaliLa Standard Ten, svelata nel 1954, non è altro che una Eight (mostrata l’anno prima) con un motore più grosso e potente e con finiture più curate. Lunga solo 3,66 metri, è disponibile al lancio in tre varianti di carrozzeria: due porte (berlina e veicolo commerciale) e berlina quattro porte. Nel 1955 arriva la versatile station wagon Companion, che conquista parecchi clienti nel Regno Unito grazie alle pratiche porte posteriori e nello stesso anno un esemplare guidato dal pilota britannico Jimmy Ray si aggiudica a sorpresa il prestigioso RAC Rally grazie ad un regolamento che favorisce le vetture di piccola cilindrata.Affidabile e adatta alle superfici sconnesse grazie all’assetto rialzato, è piacevole da guidare e ha una buona tenuta di strada: migliorabili, invece, i freni (poco potenti) e le finiture (essenziali). Alcuni esemplari dotati di guida a sinistra vengono commercializzati (senza grande successo) negli USA come Triumph TR-10.Standard Ten (1954): la tecnicaLa Standard Ten del 1954 monta un motore a quattro cilindri da 950 cc e 34 CV abbinato ad un cambio manuale a quattro marce: un propulsore elastico (anche se un po’ rumoroso) contraddistinto da una buona ripresa. Nel 1957 entra nel listino degli optional l’overdrive.Standard Ten (1954): le quotazioniLa Standard Ten è introvabile in Italia, molto più semplice rintracciarla nel suo Paese natale: il Regno Unito. Le quotazioni ufficiali recitano 4.000 euro ma per entrare in possesso di esemplari ben tenuti bisogna sborsarne almeno 7.000.

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Virgil Exner: il design che guarda avanti
Virgil Exner è uno dei car designer più famosi di sempre e ha rivoluzionato lo stile delle auto Chrysler negli anni ’50 e ’60 puntando sull’originalità ma anche sulla razionalità. Scopriamo insieme la sua storia, ricca di gioie e di sofferenze.Virgil Exner, la biografiaVirgil Exner vede la luce il 24 settembre 1909 a Ann Arbor (USA): adottato poco dopo la nascita, si appassiona da giovane al disegno e alle automobili. Nel 1926 studia arte all’Università di Notre Dame dell’Indiana ma è costretto ad abbandonare gli studi due anni più tardi per carenza di soldi.All’inizio degli anni Trenta trova lavoro in un’agenzia pubblicitaria: si occupa delle pubblicità dei pick-up Studebaker e conosce Mildred (che diventerà sua moglie e gli darà due figli: Virgil Jr. nel 1933 e Brian nel 1940, scomparso nel 1941 in seguito ad un incidente domestico).L’assunzione in General MotorsLe grandi doti artistiche di Virgil Exner vengono notate dall’allora responsabile dello stile GM Harley Earl: viene assunto nel colosso di Detroit e dopo soli due anni gli viene affidato il compito di supervisionare il design del marchio Pontiac.Il conflitto con Raymond LoewyNel 1938 Exner si trasferisce a New York per lavorare nel prestigioso studio di design di Raymond Loewy: inizialmente si occupa di mezzi militari ma poco dopo viene spedito nell’Indiana per disegnare le Studebaker.Sei anni più tardi, su consiglio dell’allora ingegnere capo della Casa “yankee” Roy Cole, Virgil Exner invia alcuni suoi disegni alla dirigenza del marchio di South Bend senza comunicarlo a Loewy. Per questa ragione viene licenziato ma poco dopo trova un posto proprio alla Studebaker.Il secondo dopoguerraL’esperienza di Exner alla Studebaker è breve e si interrompe già nel 1947 dopo che per ragioni pubblicitarie la Starlight (disegnata da Virgil) viene attribuita al più blasonato Loewy. Oltretutto Cole, l’unica persona legata a Exner all’interno dell’azienda, è in procinto di andare in pensione ma prima di farlo segnala il suo nome alla Chrysler, azienda in crisi che ha bisogno di uno stilista in grado di ringiovanire il marchio.L’era ChryslerNel 1949 Virgil Exner inizia a lavorare in Chrysler e si occupa soprattutto di realizzare concept car in collaborazione con il carrozziere piemontese Ghia. Nel 1953 viene promosso responsabile dello stile del brand e due anni più tardi la sua filosofia di design prende forma in occasione del lancio dell’ammiraglia 300.Su questa vettura (e sulle altre che seguiranno) Exner non si limita a copiare le onnipresenti pinne introdotte dalla Cadillac nel 1948 ma le sfrutta in maniera razionale puntando su forme aerodinamiche e – grazie all’abbassamento del baricentro – sull’aggressività. Nel 1956 ha un attacco di cuore e l’anno seguente – in concomitanza con il debutto assoluto su un’auto statunitense dei finestrini laterali curvi (sulle versioni hard-top) – viene nominato vicepresidente dello stile.In quell’anno, però, iniziano i primi scontri con Lester Colbert. L’allora capo della Chrysler chiede per le vetture del 1962 uno stile più tradizionale, Virgil Exner accetta ma senza essere convinto di questa decisione e quando questi modelli si rivelano un flop viene licenziato (gli viene però concesso di restare come consulente fino al 1964, anno della pensione).Gli ultimi anniExner continua a lavorare come consulente negli anni ’60: tenta di far risorgere senza successo il marchio Duesenberg ma le forme del prototipo disegnato per quel tentativo vengono usate per far rinascere temporaneamente il brand Stutz.Virgil Exner scompare il 22 dicembre 1973 a Royal Oak (USA).

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M1, serie 8 e Z8, la storia delle supercar BMW
La BMW non ha realizzato molte supercar nel corso della sua lunga storia. Sono infatti solo tre i modelli della Casa bavarese che possono rientrare in questa categoria: le coupé M1 e serie 8 e la spider Z8. Scopriamo insieme l’evoluzione delle sportive dell’Elica.BMW M1 (1978)La versione di serie della BMW M1 nasce nel 1978 ma il design – firmato Giorgetto Giugiaro – è ispirato alla concept Turbo di Paul Bracq realizzata sei anni prima per le Olimpiadi di Monaco di Baviera. Dotata di una carrozzeria in fibra di vetro e prodotta in meno di 500 esemplari (453, per l’esattezza), ospita sotto il cofano un motore 3.5 a sei cilindri in linea da 277 CV montato in posizione posteriore/centrale.Tra il 1979 e il 1980 la versione da corsa ProCar della coupé tedesca è protagonista di un campionato monomarca nel quale si sfidano parecchi piloti di F1 il giorno prima dei GP.BMW serie 8 (1989)La BMW serie 8, realizzata sullo stesso pianale dell’ammiraglia serie 7, debutta ufficialmente al Salone di Francoforte del 1989 ed entra nei listini italiani nel 1990. Il motore al lancio è un gioiello della meccanica: un 5.0 V12 da 299 CV che si abbina alla perfezione ad una sportiva capace di essere tanto elegante quanto “cattiva”.Nel 1992 arriva la sportivissima versione CSi, con un 5.6 V12 da 381 CV sviluppato dalla divisione M del marchio teutonico, mentre risale all’anno seguente il lancio della più “tranquilla” 840, dotata di un 4.0 V8 da 286 CV. Nel 1994 il cinque litri viene rimpiazzato da un 5.4 – sempre a dodici cilindri – da 326 CV, propulsore che due anni dopo rimane l’unico nella gamma in seguito all’addio alle scene della CSi.BMW Z8 (1999)La BMW Z8 nasce nel 1999 per sfidare la regina delle spider eleganti: la Mercedes SL. Il design retrò strizza l’occhio alla mitica 507 del 1956 ma anche al prototipo Z07 capace di sedurre nel 1997 i visitatori del Salone di Tokyo mentre i contenuti sono estremamente moderni: telaio in alluminio, pneumatici run-flat e navigatore satellitare.Commercializzata in Italia dal 2000 al 2004 e venduta in 5.703 esemplari in tutto il mondo, monta un possente motore 4.9 V8 da 400 CV (lo stesso della M5) che le consente di raggiungere una velocità massima di 250 km/h e di scattare da 0 a 100 chilometri orari in 4,7 secondi. Il piacere di guida è anche garantito dalla distribuzione dei pesi equilibrata (50:50).

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Harvey Firestone, il re degli pneumatici
Harvey Firestone, fondatore dell’azienda specializzata in pneumatici che ancora oggi porta il suo nome, è uno degli imprenditori che hanno contribuito a far diventare gli USA una potenza mondiale. Scopriamo insieme la storia di quest’uomo, capace di creare un impero grazie alle gomme.Harvey Firestone, la storiaHarvey Firestone nasce il 20 dicembre 1868 a Columbiana (USA). Dopo aver conseguito il diploma trova lavoro come venditore di carrozze presso la Columbus Buggy Company e già allora si rende conto che le ruote in gomma sono più comode di quelle in acciaio e legno.Nel 1890 entra nel settore degli pneumatici per carrozze e cinque anni più tardi incontra un giovane ingegnere di Detroit, un certo Henry Ford, che sarà fondamentale per la sua carriera. Il 1896 è l’anno in cui si trasferisce a Chicago per vendere gomme insieme ad alcuni soci.Nasce la FirestoneHarvey Firestone si sposta ad Akron, capitale mondiale degli pneumatici (città che ha già visto la nascita nel 1870 della B. F. Goodrich e nel 1898 della Goodyear) e fonda la Firestone, società inizialmente specializzata nella commercializzazione di gomme. Nel 1903 inizia a produrre coperture e nel 1904 realizza le prime destinate alle automobili.La svolta grazie alla FordLa svolta per Harvey arriva nel 1906 quando Henry Ford sceglie per la Ford T, vettura che vedrà la luce due anni più tardi, pneumatici Firestone: i profitti dell’azienda statunitense – che nel 1909 inizia a produrre anche cerchi – salgono vertiginosamente al punto che il milione di dollari di utile viene raggiunto già nel 1910.Il primo successo sportivoLa società creata da Harvey Firestone inizia a farsi conoscere anche nel motorsport quando nel 1911 il pilota “yankee” Ray Harroun conquista al volante di una Marmon dotata di gomme Firestone la prima edizione di una gara destinata ad entrare nella storia: la 500 Miglia di Indianapolis.Il boom degli anni ’20Nella seconda metà degi anni Venti la Firestone è un vero e proprio colosso: un quarto degli pneumatici prodotti negli USA appartiene a questo brand, che crea nel 1926 Firestone Complete Auto Care (una catena di officine specializzate nella manutenzione delle automobili) e una piantagione di caucciù in Liberia (ancora oggi attiva) realizzata per contrastare il monopolio britannico e olandese nelle loro colonie del sudest asiatico.Gli anni TrentaNel 1930 si assiste ad un brusco calo delle vendite per la Firestone dovuto alla Grande Depressione ma nel 1932, anno in cui Harvey va in pensione, la situazione migliora grazie alla realizzazione del primo pneumatico al mondo progettato appositamente per i mezzi agricoli. Il fondatore della società scompare il 7 febbraio 1938 a Miami Beach (USA).

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Toyota 4Runner, la storia della SUV giapponese
La Toyota 4Runner è una SUV molto apprezzata in Nord America che per qualche anno (dal 1989 al 1997, per la precisione) è stata venduta anche in Italia. La quinta generazione della 4×4 nipponica, quella attualmente in commercio, vede la luce nel 2009: disponibile a due o a quattro ruote motrici, viene lanciata con due motori (un 2.7 che sparisce dal listino già nel 2011 e un 4.0 V6 da 273 CV) e nel 2013 beneficia di un restyling che coinvolge soprattutto il frontale e la coda.Scopriamo insieme la storia di questa robusta Sport Utility creata per affrontare le superfici più insidiose nel massimo comfort.Toyota 4Runner prima generazione (1984)La prima generazione della Toyota 4Runner – svelata nel 1984 – non è altro che il pick-up Hilux dotato di sedili dietro e di un pannello posteriore removibile in fibra di vetro. Dotata di due sole porte, monta al lancio tre motori – due a benzina (2.0 e 2.4) e un 2.4 a gasolio – affiancati l’anno seguente da un 2.4 turbodiesel.Nel 1986, in concomitanza con l’arrivo di una griglia frontale rivista e delle sospensioni anteriori a ruote indipendenti (soluzione che incrementa il comfort sulle strade normali), debutta un 2.4 turbo a benzina. Questa unità viene rimpiazzata nel 1988 da un 3.0 V6.Toyota 4Runner seconda generazione (1989)Anche la seconda generazione della Toyota 4Runner, svelata nel 1989, è realizzata sulla stessa base dell’Hilux ma si differenzia dall’antenata per uno stile più simile a quello di una SUV e per la presenza di una variante dotata di porte posteriori. La “cinque porte” è l’unica che viene commercializzata in Italia: inizialmente con un motore 3.0 V6 a benzina da 143 CV e dal 1990 anche con un 2.4 turbodiesel da 90 CV.Nel 1992 è la volta di un leggero restyling (frontale più moderno) mentre l’anno successivo abbandona il listino la meno versatile versione a tre porte.Toyota 4Runner terza generazione (1995)La terza generazione della Toyota 4Runner – mostrata nel 1995 – rappresenta un grande passo avanti nel comfort e nello spazio interno (ma non nel design) rispetto alle serie precedenti grazie all’adozione del pianale della Land Cruiser. Al già noto motore 3.0 a gasolio si aggiungono due nuove unità a benzina: un 2.7 da 150 CV e un 3.4 V6 da 185 CV.Il restyling, che porta paraurti più voluminosi e gruppi ottici rivisti, risale al 1999 e due anni più tardi si assiste ad un nuovo lifting che coinvolge la mascherina e (nuovamente) i fari.Toyota 4Runner quarta generazione (2002)La Toyota 4Runner quarta generazione del 2002 può essere considerata un’evoluzione della terza serie. La gamma motori al lancio comprende due unità a benzina (4.0 V6 da 249 CV e 4.7 V8 da 238 CV) e un 3.0 turbodiesel. Con il restyling del 2005 (modifiche alla mascherina, al frontale e alla coda) la potenza del V8 sale fino a quota 264 CV.

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TVR Tamora (2002): non chiamatela entry level
Nel 2002 la Tamora era la TVR più economica in commercio ma considerarla una “entry level” significherebbe sminuirla. Questa spider completamente priva di controlli elettronici è infatti una delle auto più divertenti da guidare costruite negli anni Duemila: trovarla in Italia è praticamente impossibile ma nel Regno Unito è facile rintracciare esemplari ben tenuti a 25.000 euro.TVR Tamora (2002): le caratteristiche principaliLa TVR Tamora – nata nel 2002, commercializzata in Italia dal 2004 al 2005 e prodotta fino al 2006 in circa 350 esemplari – è una scoperta a due posti secchi caratterizzata da un design originale. Tra gli elementi più vistosi segnaliamo la coda (un po’ sproporzionata, a nostro avviso) e la fiancata priva di maniglie (le porte si aprono premendo un pulsante posizionato nella parte inferiore della calotta degli specchietti retrovisori).Nonostante l’assenza dell’ABS, dei controlli di stabilità e trazione e degli airbag è meno “brutale” delle altre TVR e maggiormente usabile tutti i giorni: agilissima nelle curve (merito anche delle dimensioni esterne compatte: 3,93 metri di lunghezza), può vantare freni potentissimi. Le note dolenti arrivano dal voluminoso tunnel centrale (che toglie spazio all’abitacolo), dai costi di gestione elevati (i ricambi sono carissimi) e dalla scarsa affidabilità del motore.TVR Tamora (2002): la tecnicaIl motore della TVR Tamora del 2002 è un 3.6 a sei cilindri “fatto in casa” in grado di generare una potenza di 355 CV e una coppia di 393 Nm. Grazie a questa unità la supercar britannica a trazione posteriore raggiunge una velocità massima di 280 km/h e accelera da 0 a 100 chilometri orari in 4,4 secondi.TVR Tamora (2002): le quotazioniLa TVR Tamora è introvabile nel nostro Paese (la Casa britannica è sempre stata un marchio di nicchia da noi): più semplice rintracciarne una nel Regno Unito a quotazioni vicine a quelle ufficiali (25.000 euro).

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