Category Archives: Auto Classiche
Ferrari, F1 e Schumacher: le foto più belle del periodo 1996-2006
Michael Schumacher e la Ferrari: un legame in F1 durato undici stagioni – dal 1996 al 2006 – che ha portato undici Mondiali. Per l’esattezza cinque titoli Piloti (2000-2005) e sei Costruttori (1999-2005).In questa gallery abbiamo voluto ricordare con alcune foto gli anni d’oro del Cavallino: un periodo caratterizzato da GP spesso noiosi ma ricco di soddisfazioni per i tifosi della Rossa.

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Peugeot 205 GTi, la storia della piccola sportiva francese
Non esageriamo quando diciamo che la Peugeot 205 GTi ha rivoluzionato il mondo delle piccole sportive: la pepata “segmento B” francese è stata infatti una delle auto più desiderate dai giovani degli anni ’80 e ancora oggi è impossibile non emozionarsi di fronte alle sue linee, tra le più riuscite di quel decennio. Scopriamo insieme la storia di questo mito d’Oltralpe.Peugeot 205 GTi, la storiaLa sigla GTI – acronimo di Grand Tourisme Injection – viene introdotta per la prima volta dalla Peugeot nel 1983 sull’ammiraglia 604 ma entra ufficialmente nella leggenda l’1 marzo 1984, in occasione della presentazione – al Salone di Ginevra – della variante sportiva della 205 mostrata l’anno prima.La prima versione a tre porte della piccola transalpina monta un motore 1.6 a benzina da 105 CV ed è ricca di pregi che le consentono di fare breccia nel cuore degli appassionati: prestazioni vivaci, grande agilità nelle curve, freni potentissimi e un design seducente.La Peugeot 205 GTi conquista tantissimi clienti anche grazie alle vittorie sportive: nel 1985 la 205 Turbo 16 (un mostro a motore centrale e trazione integrale che ricorda la “segmento B” del Leone solo nelle forme) si aggiudica il Mondiale rally Piloti (con il finlandese Timo Salonen) e Costruttori e si ripete l’anno successivo con un altro finnico (Juha Kankkunen).Arriva la 1.9Il 1986 è un anno di cambiamenti: la potenza del 1.6 sale a quota 113 CV e sbarca nelle concessionarie la 1.9 da 127 CV, caratterizzata dalla carreggiata più larga (per accogliere i cerchi in lega da 15”), dai freni a disco posteriori e da alcune modifiche ai rapporti del cambio e alla trasmissione.La Peugeot 205 GTi beneficia di un redesign del cruscotto nel 1987 e di un volante a tre razze nel 1988: in quel biennio la “cugina” Grand Raid progettata per le corse (nient’altro che un’evoluzione della Turbo 16) conquista due Parigi-Dakar sempre con due driver finlandesi (Ari Vatanen e Kankkunen) contribuendo a mantenere vivo l’interesse nei confronti del modello di serie.Gli anni ’90La versione Plus del 1990 – contraddistinta dalla presenza dei sedili in cuoio e del condizionatore e disponibile solo in abbinamento al motore 1.9 – si rivolge agli automobilisti sportivi che non possono rinunciare all’eleganza. L’anno seguente è invece la volta della variante Action (acquistabile con entrambi i propulsori presenti in gamma), con una dotazione di serie ancora più ricca: alzacristalli elettrici, vetri posteriori con apertura a compasso, sedili in pelle e condizionatore.Nel 1992 – ultimo anno di carriera della Peugeot 205 GTi nel nostro Paese – il motore 1.6 abbandona le scene e la potenza del 1.9 scende a 120 CV per via della presenza del catalizzatore.

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Ferrari 312PB: quando il Cavallino disse addio all’endurance
La Ferrari 312PB non è un’auto da corsa molto conosciuta: eppure questa vettura entra di diritto nella storia del Cavallino in quanto è l’ultimo prototipo schierato ufficialmente dalla Casa di Maranello nel Mondiale Marche (vinto nel 1972 e abbandonato al termine della stagione seguente). Scopriamo insieme la storia di questo mito dell’endurance italiano.Ferrari 312PB, la storiaLa Ferrari 312PB (nome ufficiale 312P, la B serve per distinguerla da un modello dal nome identico presentato nel 1969) viene creata all’inizio degli anni ’70 per partecipare al Mondiale Sportprototipi. Appartenente alla categoria Gruppo 6 (limite di cilindrata fissato a tre litri) e realizzata in 13 esemplari, non è altro che una F1 – più precisamente la 312 B del 1970 – a ruote coperte rivestita da una carrozzeria in poliestere e vetroresina.Veloce e agilissima nelle curve (merito delle dimensioni esterne contenute, del peso inferiore a 700 kg e del passo corto), condivide con la monoposto del Cavallino il telaio (tubolare rinforzato da pannelli in alluminio), le sospensioni, il retrotreno e il motore: un propulsore 3.0 a 12 cilindri a V piatto (per abbassare il baricentro) da 460 CV con 1.500 giri in meno (10.800 anziché 12.200, scelta adottata per incrementare l’affidabilità nelle corse di durata) montato in posizione centrale longitudinale e abbinato ad un cambio a cinque marce.La Ferrari 312PB può raggiungere una velocità massima di 320 km/h e può vantare un’eccellente distribuzione dei pesi: merito dei quattro serbatoi di carburante (due ai lati del pilota e due sotto il sedile). I primi collaudi della vettura iniziano nel 1970 mentre bisogna aspettare il 1971 per il debutto in gara.1971Il debutto in gara della 312PB – il 10 gennaio 1971 – non è dei più fortunati: alla 1.000 km di Buenos Aires Ignazio Giunti perde infatti la vita in seguito ad uno schianto contro la Matra-Simca MS660 rimasta senza benzina e spinta a mano in pista dal francese Jean-Pierre Beltoise.Il primo risultato rilevante per la Ferrari 312PB arriva il 4 aprile con il secondo posto del belga Jacky Ickx e dello svizzero Clay Regazzoni alla 1.000 km di Brands Hatch mentre bisogna attendere il 6 novembre – alla 9 ore di Kyalami (gara non valida per il Mondiale Marche) – per la prima vittoria (con Regazzoni e il britannico Brian Redman) impreziosita dalla seconda piazza di Ickx e dello statunitense Mario Andretti.1972La situazione migliora nel 1972 quando grazie ad alcune modifiche che migliorano l’affidabilità e alla carenza di avversari (dovuta ad un sempre minore interesse riscontrato dalle Case e dal pubblico nei confronti delle gare endurance) la Casa emiliana conquista il Mondiale Marche (l’ultimo di una lunga serie) vincendo tutte le gare a cui prende parte.La cavalcata della Ferrari 312PB comincia alla 1.000 km di Buenos Aires con lo svedese Ronnie Peterson e l’australiano Tim Schenken (secondi alla 6 Ore di Daytona, alla 12 Ore di Sebring, alla 1.000 km di Brands Hatch e alla 6 Ore di Watkins Glen, prove vinte dal duo Ickx/Andretti, e terzi alla 1.000 km di Monza conquistata da Ickx/Regazzoni – a loro volta secondi alla 1.000 km di Spa dietro a Redman e al nostro Arturo Merzario – e alla 1.000 km di Zeltweg caratterizzata da un poker: 1° Ickx/Redman, secondi l’austriaco Helmut Marko e il brasiliano Carlos Pace e quarto il duo formato da Merzario e da Sandro Munari davanti a tutti alla Targa Florio).Enzo Ferrari sceglie di non correre la 24 Ore di Le Mans in quanto la 312PB è un’auto nata per correre le 1.000 km e poco affidabile sulle distanze più lunghe mentre tra i successi minori segnaliamo due doppiette: Merzario (1°) e Ickx (2°) alla 500 km di Imola e Regazzoni (1°) e Merzario (2°) alla 9 Ore di Kyalami.1973Il 1973 è l’ultimo anno che vede la Ferrari partecipare ufficialmente al Mondiale Sportprototipi: mancano i soldi per gestire contemporaneamente questo campionato e il Mondiale F1 e si preferisce optare per il più rinomato Circus. I numerosi guasti meccanici e la presenza di una Matra fortissima impediscono alla 312PB (che può vantare l’alettone posteriore ridisegnato, il passo allungato e i freni entrobordo) di primeggiare come nella stagione precedente e per questo la sportiva di Maranello si deve accontentare di pochi risultati rilevanti.Tra i più importanti segnaliamo le due doppiette alle 1.000 km di Monza – primi Ickx/Redman e secondo Schenken con l’argentino Carlos Reutemann – e del Nürburgring (ultimo successo assoluto del Cavallino nel Mondiale Marche): primi Ickx/Redman e secondi Pace/Merzario.Alla 24 Ore di Le Mans la Ferrari decide di schierare tre esemplari di 312PB affidati agli equipaggi Ickx/Redman, Schenken/Reutemann e Merzario/Pace. Quest’ultima coppia, destinata a svolgere il ruolo di lepre, è curiosamente l’unica che riesce a tagliare il traguardo, oltretutto in seconda posizione.L’ultima apparizione della Ferrari 312PB risale al 21 luglio in occasione della 6 Ore di Watkins Glen: seconda piazza per Ickx/Redman e terza posizione per Merzario/Pace.

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Lanchester 40 (1919): la prima auto della Regina Elisabetta
La Lanchester 40, nata ufficialmente nel 1919, rappresenta un pezzo di storia del Regno Unito: creata per sfidare la mitica Rolls-Royce Silver Ghost, ebbe molti clienti facoltosi. Il più importante? Senza dubbio il duca di York, l’uomo che nel 1936 diventerà re Giorgio VI (la sua storia è stata raccontata nel film “Il discorso del re” del 2010).Albert Frederick Arthur George acquistò questa vettura nel 1925 per farla usare soprattutto alla moglie Elizabeth Bowes-Lyon (meglio nota con il titolo di Regina madre) e l’attuale Regina Elisabetta II fece il suo primo viaggio in auto – nel 1926, sei settimane dopo la nascita – proprio su questo modello. Oggi per acquistare questa prestigiosa ammiraglia ci vogliono oltre 80.000 euro: peccato che sia introvabile.Lanchester 40 (1919): le caratteristiche principaliLa Lanchester 40 debutta al Salone di Londra del 1919: più cara della rivale diretta – la Rolls-Royce Silver Ghost svelata 13 anni prima – ma anche tecnicamente più evoluta, viene prodotta in meno di 400 esemplari.Estremamente lussuosa e incredibilmente spaziosa (il passo è di 3,53 metri), conquista numerosi automobilisti facoltosi nel Regno Unito e nelle varie colonie britanniche sparse per il mondo: termina la propria carriera alla fine degli anni ’20, anche per via della crisi del 1929.Lanchester 40 (1919): la tecnicaIl motore della Lanchester 40 del 1919 è un 6.2 a sei cilindri da 96 CV abbinato ad un cambio a tre marce: questa unità permette all’ammiraglia british di raggiungere una velocità massima di 129 km/h (superiore a quella della Rolls-Royce Silver Ghost). Nel 1924 arrivano i freni anteriori mentre nel 1925 il propulsore beneficia di alcuni miglioramenti.Lanchester 40 (1919): le quotazioniAl momento del debutto, nel 1919, la Lanchester 40 costava più della Rolls-Royce Silver Ghost (che ora ha raggiunto quotazioni stratosferiche) mentre oggi “bastano” circa 80.000 euro per entrare in possesso di un esemplare ben conservato. Trovarne una, però, è praticamente impossibile: chi ce l’ha se la tiene ben stretta (è pur sempre una delle auto che simboleggiano la famiglia reale inglese) e sono ben pochi i modelli messi in vendita nelle aste.

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Autobianchi A112 Abarth 58 CV (1971): la più desiderata
L’Autobianchi A112 Abarth – nata nel 1971 – è una delle auto d’epoca più amate dagli italiani: la citycar pepata lombarda preparata dallo Scorpione ha un design ancora oggi gradevole, regala prestazioni vivaci, è divertentissima da guidare e presenta costi di gestione abbordabili. Le prime due generazioni – contraddistinte dalla presenza di un motore da 58 CV – sono meno potenti di quelle arrivate dopo ma sono anche le più desiderate: si trovano abbastanza facilmente ma per entrare in possesso di un esemplare ben tenuto bisogna sborsare più di 10.000 euro.Autobianchi A112 Abarth 58 CV (1971): le caratteristiche principaliL’Autobianchi A112 Abarth prende forma nel 1970 quando Carlo Abarth (fondatore della Casa dello Scorpione), intuendo le potenzialità della “baby” lombarda (mostrata l’anno prima), realizza una versione sportiva di questa vettura e convince la Fiat a produrla.La prima serie vede la luce al Salone di Torino del 1971: meno cara della Mini Cooper (la rivale diretta), è contraddistinta da una tinta rossa impreziosita da alcuni elementi neri opachi (cofano, fasce laterali, codolini passaruota, fascione anteriore e piano posteriore al di sotto del portellone). Nell’abitacolo spiccano invece il volante a tre razze in pelle, i tre strumenti supplementari (voltmetro, termometro olio e manometro olio) e i sedili con appoggiatesta.L’Autobianchi A112 Abarth 58 CV impiega pochissimo tempo a conquistare i giovani automobilisti italiani, affascinati dalle prestazioni brillanti e dal comportamento stradale impeccabile. Tra i difetti più rilevanti segnaliamo invece la scarsa affidabilità (surriscaldamento dell’olio, semiassi fragili), il comfort ridotto all’osso (sospensioni rigidissime e motore molto rumoroso), le finiture poco curate e il poco spazio a disposizione dei passeggeri posteriori.Nel 1972 arriva un piccolo radiatore dell’olio che risolve il problema al sistema di lubrificazione: per quanto riguarda l’estetica notiamo invece l’introduzione di due versioni monocolore (grigia e arancione) e l’incremento della plastica (le cromature rimangono solo sui paraurti e sulle maniglie).La seconda serie dell’Autobianchi A112 Abarth 58 CV viene presentata ufficialmente al Salone di Ginevra del 1973: identica nella meccanica alla generazione precedente, si distingue per i paraurti in plastica e per i sedili con appoggiatesta regolabile. Arriva una nuova versione monocolore blu mentre il nero opaco resta solo sul cofano degli esemplari rossi.Autobianchi A112 Abarth 58 CV (1971): la tecnicaIl motore dell’Autobianchi A112 Abarth 58 CV svelata nel 1971 è un 982 cc derivato dal “mitico” 903 e caratterizzato dalla corsa allungata, dal rapporto di compressione più elevato e dalla rivisitazione dell’albero a camme e delle sedi delle valvole. Senza dimenticare lo scarico rivisto e il carburatore doppio corpo Weber. L’impianto frenante è più potente di quello delle versioni “normali”: merito dei dischi anteriori più grandi e del servofreno.Nonostante l’aumento di potenza (da 44 a 58 CV) il propulsore si rivela meno assetato di quello delle A112 “standard”: l’unità presente sotto il cofano della citycar pepata lombarda è meno pronta ai bassi regimi ma sensibilmente più reattiva agli alti. Notevole l’incremento della velocità massima: da 135 a 150 km/h.Autobianchi A112 Abarth 58 CV (1971): le quotazioniLa prima serie dell’Autobianchi A112 Abarth 58 CV è stata prodotta in soli 4.641 esemplari ma è abbastanza facile da trovare: le sue quotazioni superano abbondantemente i 10.000 euro. Più semplice da rintracciare (nonché più abbordabile: oltre 8.000 euro) la seconda serie, realizzata in 13.759 esemplari.

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Erik Carlsson, una vita per la Saab
È semplicemente impossibile parlare di Erik Carlsson senza citare la Saab: questo pilota svedese – soprannominato “Carlsson on the roof” (“Carlsson sul tetto”) per la sua tendenza a capottarsi e noto, tra le altre cose, per aver “preso” in prestito durante un rally parti meccaniche di un’auto parcheggiata per poter proseguire una gara – ha infatti corso principalmente con auto della Casa scandinava regalandole i successi più significativi. Scopriamo insieme la sua storia.Erik Carlsson, la storiaErik Carlsson nasce il 5 marzo 1929 a Trollhättan (Svezia) come la Saab. Inizia a correre con le moto ma dopo poco tempo passa ai rally e debutta in questa disciplina nel 1951 con una Volvo.Le vittorie più importantiIl primo successo importante arriva nel 1957 quando – al volante di una Saab 93 – diventa il primo pilota non finlandese a salire sul gradino più alto del podio del prestigioso Rally dei 1000 Laghi. Due anni più tardi trionfa in Svezia e in Germania e nel 1960 (quando passa alla 96) è il primo driver non britannico a conquistare il RAC Rally nel Regno Unito (gara che vincerà per altre due volte nel 1961 – anno in cui porta a casa anche il Rally dell’Acropoli – e nel 1962).Risale al 1962 la prima vittoria di Erik Carlsson a Monte Carlo: il successo viene bissato nel 1963, anno nel quale il pilota scandinavo convola a nozze con la britannica Pat Moss, sorella di Stirling nonché cinque volte campionessa europea rally. Nel 1964 conquista il Sanremo con una Saab 96 Sport mentre nel 1967 arriva l’ultimo successo rilevante in Cecoslovacchia.Gli ultimi anniCarlsson smette di correre nel 1970 e si stabilisce in Inghilterra con l’adorata Pat lavorando come “ambasciatore” Saab. Perde la vita in un ospedale di Londra (Regno Unito) il 27 maggio 2015, sette anni dopo la moglie.

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Chrysler, la storia della Casa statunitense
La Chrysler, che quest’anno compie 90 anni, ha avuto una lunga storia contraddistinta da tanti successi ma anche da molti fallimenti. Ora, grazie a Fiat, il brand “yankee” sembra essersi ripreso definitivamente ed è pronto a tornare a recitare un ruolo da protagonista nel mercato mondiale. Scopriamo insieme l’evoluzione di questo marchio.Chrysler, la storiaLa Chrysler nasce ufficialmente nel 1925 anche se in realtà il suo fondatore Walter Chrysler (ex responsabile Buick nella seconda metà degli anni ’10 del XX secolo che decide di mettersi in proprio dopo aver tentato, senza successo, di acquistare la Willys, azienda da lui risanata) crea la prima auto – la Six (dotata di un motore 3.3 a sei cilindri da 68 CV) – insieme a tre ingegneri provenienti dalla Studebaker già nel 1924.L’obiettivo di Walter è quello di realizzare automobili lussuose ma non troppo care: il massimo esempio di questa filosofia arriva dalla gamma Imperial, sviluppata per rubare clienti a Cadillac e Lincoln. Risale al 1928 l’acquisizione del marchio Dodge.Gli anni ’30La Chrysler Airflow del 1934 è una delle prime vetture statunitensi progettata in galleria del vento: per l’epoca è troppo originale (e per questo motivo il pubblico la snobba) ma è ancora oggi ricordata per le sue innovazioni in campo aerodinamico. Alla fine del decennio gli ingegneri “yankee” iniziano a lavorare sui motori per ottenere prestazioni più elevate: nel 1939 vede la luce il primo propulsore Hemi (con camera di combustione di forma emisferica), unità che viene adottata dall’aviazione militare.La Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerraDurante la Seconda Guerra Mondiale il marchio nordamericano si occupa di produrre mezzi militari e radar e anche al termine del conflitto l’azienda continua a collaborare con il governo degli Stati Uniti nel campo della progettazione di missili.Gli anni CinquantaNel 1951 Chrysler inizia a commercializzare automobili dotate di motori Hemi. Due anni più tardi il designer Virgil Exner (assunto nel 1949) viene nominato responsabile dello stile e rivoluziona le forme delle vetture della Casa statunitense puntando sull’aerodinamica e sull’abbassamento del baricentro.Il modello più noto è senza dubbio l’ammiraglia 300 del 1955: la versione 300C mostrata due anni più tardi, con i suoi 381 CV, è l’auto “yankee” più potente tra quelle presenti all’epoca in listino.Gli anni ’60Il 1960 è l’anno in cui la Chrysler inizia ad adottare su quasi tutta la gamma (Imperial escluse) il telaio monoscocca: nello stesso periodo parte la collaborazione con la NASA per i viaggi spaziali.Risale al 1963 l’acquisizione del marchio francese Simca il quale, in seguito alla fusione con il brand britannico Rootes e la Casa spagnola Barreiros, porta alla creazione – quattro anni più tardi – della Chrysler Europe.La crisi e la rinascitaNel 1971 Chrysler acquista il 15% della Mitsubishi e approfitta dell’accordo per rimarchiare diversi modelli della Casa giapponese e venderli negli USA. La crisi petrolifera del 1973 segna profondamente il brand, incapace di adattarsi rapidamente ad un mercato che chiede vetture più compatte e meno assetate di carburante.La svolta arriva nel 1978 quando Lee Iacocca viene nominato presidente e amministratore delegato: si circonda di collaboratori di fiducia provenienti dalla sua precedente esperienza in Ford, licenzia numerosi operai, vende la filiale europea alla Peugeot e ottiene numerosi prestiti grazie alle garanzie del Congresso.Nel 1979 Iacocca diventa presidente del consiglio di amministrazione Chrysler e la risolleva grazie ad una serie di progetti bocciati qualche anno prima dalla Casa dell’Ovale Blu. Due su tutti: il pianale K a trazione anteriore introdotto nel 1981 e la Voyager, prima grande monovolume moderna lanciata come Dodge nel 1984 e commercializzata con il brand Chrysler dal 1988.Un altro avvenimento rilevante per Chrysler arriva nel 1987 con l’acquisizione della Lamborghini e della AMC (American Motors Corporation). Quest’ultimo acquisto serve soprattutto ad entrare in possesso del prestigioso marchio Jeep.Gli anni ’90Nella prima metà degli anni ’90 Chrysler si sbarazza di Mitsubishi e Lamborghini e torna a proporre vetture dal design moderno come la Concorde del 1993. Nel 1998, in seguito alla fusione con Mercedes, nasce il colosso DaimlerChrysler.La DaimlerChryslerL’accordo Germania-USA consente alle vetture della Casa “yankee” di sfruttare componenti meccaniche della Stella: tra i modelli più rilevanti di quel periodo segnaliamo la PT Cruiser del 2000 (un’originale monovolume compatta dallo stile retrò), la sexy sportiva Crossfire del 2003 (disponibile coupé o spider e realizzata sulla stessa piattaforma della SLK) e la massiccia ammiraglia 300C del 2004.La seconda crisi e la rinascitaLa Chrysler viene ceduta nel 2007 al fondo Cerberus e si ritrova in bancarotta controllata l’anno successivo dopo la crisi economica. Nel 2009 Fiat rileva il 20% dell’azienda a costo zero impegnandosi a risanarla, nel 2010 la dirigenza torinese crea una sinergia con Lancia (che porta alla realizzazione di numerose auto in comune) e nel 2011 viene acquisita la maggioranza dell’azienda “yankee” (che abbandona il mercato europeo, tranne il Regno Unito e l’Irlanda). Il 2014 è invece l’anno in cui tutta la Chrysler passa nelle mani di Fiat.

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Alpina-BMW D10 (2001): oltre la 530d
La Alpina-BMW D10 – nata nel 2001 – non è altro che una versione “elaborata” della BMW 530d E39, una delle migliori ammiraglie mai realizzate. Questa “berlinona” pepata tedesca a gasolio è impossibile da trovare nel nostro Paese: più facile rintracciarla nel Nord Europa (quotazioni inferiori a 10.000 euro).Alpina-BMW D10 (2001): le caratteristiche principaliLa Alpina-BMW D10 entra in listino nel 2001 ed è rivolta a chi non si accontenta della BMW 530d E39. Disponibile in due varianti di carrozzeria – la quattro porte e la station wagon Touring – può vantare un abitacolo spazioso e ben rifinito e un comportamento stradale eccellente: merito di un’ottima tenuta di strada, di uno sterzo preciso e di freni particolarmente potenti.Tra i difetti più rilevanti di questa vettura segnaliamo l’erogazione del motore (corposa ma solo sopra i 2.000 giri), le sospensioni rigide poco adatte a chi non può rinunciare al comfort e il bagagliaio (uno dei più piccoli della categoria).Alpina-BMW D10 (2001): la tecnicaIl motore della Alpina-BMW D10 del 2001 è lo stesso 3.0 turbodiesel della BMW 530d: grazie alla doppia sovralimentazione, però, questa unità genera 238 CV invece di 193 e permette all’ammiraglia teutonica di raggiungere una velocità massima di 254 km/h (251 per la Touring) e di accelerare da 0 a 100 chilometri orari in 7,2 secondi (7,5 per la familiare).Le versioni dotate del cambio automatico Switch Tronic sono più facili da trovare ma meno briose: 7,5 secondi sullo “0-100” per la berlina, 8 netti per la Touring. Cercate, se possibile, esemplari con trasmissione manuale.Alpina-BMW D10 (2001): le quotazioniLe quotazioni ufficiali della Alpina-BMW D10 del 2001 recitano 6.000 euro ma in realtà è impossibile trovare un possessore nordeuropeo (alle nostre latitudini è introvabile) disposto a disfarsene per meno di 10.000 euro. Una cifra a nostro avviso un po’ troppo alta per un diesel Euro 3 con quasi quindici anni di età…

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Pedro Rodríguez, il messicano volante
Pedro Rodríguez è stato uno dei piloti più talentuosi degli anni ’60: ha vinto due GP di F1, una 24 Ore di Le Mans e tante altre corse con le Sport. L’Autódromo Hermanos Rodríguez di Città del Messico nel quale si disputerà – il prossimo 1 novembre – il GP del Messico, 17° tappa del Mondiale F1 2015, è intitolato a lui e al fratello Ricardo. Scopriamo insieme la storia di uno dei driver più forti di sempre sul bagnato.Pedro Rodríguez, la storiaPedro Rodríguez nasce il 18 gennaio 1940 a Città del Messico (Messico): appassionato di motori fin da ragazzo, inizia a correre con le moto nella prima metà degli anni ’50 e nel 1955 viene spedito dal padre nell’accademia militare di Alton, negli USA, per imparare l’inglese e la disciplina.Il debutto nelle corsePedro corre la prima gara all’estero nel 1957 a Nassau (all’epoca parte del Regno Unito, ora capitale delle Bahamas) con una Ferrari 500 TR e l’anno seguente, al volante della stessa auto, debutta alla 24 Ore di Le Mans in coppia con il francese José Behra. Questo duo termina in nona posizione la 12 Ore di Reims al volante di una Porsche 356 Carrera.I primi successiLe prime vittorie per Pedro Rodríguez arrivano nel 1961 quando il pilota messicano, insieme al fratello Ricardo, conquista la 1.000 km di Parigi con una Ferrari 250 GT. I due portano a casa anche un secondo posto alla 1.000 km del Nürburgring al volante di una Ferrari 250 TRI e una terza piazza alla 12 Ore di Sebring con una 250 TR del Cavallino.Nel 1962 Pedro Rodríguez conquista la Targa Florio con una Ferrari Dino 246 SP insieme ai belgi Willy Mairesse e Olivier Gendebien, trionfa alla 400 km di Bridgehampton al volante di una Ferrari 330TRI/LM e bissa con Ricardo il trionfo a Parigi (questa volta con una 250 GTO). L’1 novembre, in seguito alla morte – a soli 20 anni – del fratello, medita il ritiro dalle corse ma poi ci ripensa.Il debutto in F1Rodríguez debutta in F1 il 6 ottobre 1963 in occasione del GP degli USA al volante di una Lotus: si ritira, a differenza del compagno di scuderia – il britannico Jim Clark – che in quello stesso anno si laureerà campione del mondo. L’anno seguente ottiene i primi punti in carriera grazie ad un sesto posto in Messico con una Ferrari della scuderia NART ma complessivamente si rivela più lento dei propri coéquipier: il britannico John Surtees (iridato in quella stagione) e il nostro Lorenzo Bandini. Nel 1966 torna alla Lotus per quattro GP rimediando però quattro ritiri e risultando meno dotato di Clark.La prima vittoria in F1Pedro Rodríguez passa alla Cooper nel 1967, vince la prima gara della stagione – il GP del Sudafrica – ma non ha modo di festeggiare degnamente sul podio in quanto gli organizzatori non hanno l’inno del suo Paese (da quel giorno si porterà sempre dietro una registrazione del brano). Con il team britannico disputa un’ottima stagione facendo meglio del compagni di squadra: l’austriaco Jochen Rindt e il britannico Alan Rees.Il 1968Il 1968 è senza dubbio il migliore anno nella carriera di Pedro: in F1 passa alla BRM, non ottiene nessuna vittoria, ma porta a casa tre podi (2° in Belgio e 3° in Olanda e in Canada) facendo meglio del coéquipier britannico Richard Attwood. Il successo più importante nella carriera di Rodríguez arriva invece alla 24 Ore di Le Mans con la Ford GT40 in coppia con il belga Lucien Bianchi.Gli ultimi anniPedro Rodríguez disputa i primi tre GP del Mondiale F1 1969 con la BRM (tre ritiri) e successivamente va alla Ferrari dove conquista punti in due occasioni. Decisamente migliore la stagione del 1970 con la BRM del team Yardley: vittoria in Belgio, 2° posto negli USA (meglio del compagno britannico Peter Westbury) e un’annata nella quale risulta più rapido dei due coéquipier principali (l’inglese Jackie Oliver e il canadese George Eaton).Con le Sport domina la prima metà della stagione al volante della Porsche 917: trionfa alla 24 Ore di Daytona con il britannico Brian Redman e il finlandese Leo Kinnunen e in coppia con lo scandinavo porta a casa anche le 1.000 km di Brands Hatch e Monza e la 6 Ore di Watkins Glen.Nel 1971 Pedro Rodríguez arriva secondo nel GP d’Olanda (davanti allo svizzero Jo Siffert e al neozelandese Howden Ganley, piloti dello stesso team), conquista la 1.000 km di Zeltweg in Austria con Attwood e in coppia con Oliver – sempre con la Porsche 917 – sale sul gradino più alto del podio alle 1.000 km di Monza e Spa.Pedro perde la vita a Norimberga (Germania Ovest) l’11 luglio 1971 mentre sta correndo sul circuito del Norisring in una gara minore alla guida di una Ferrari 512 M.

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T100 e Tundra, la storia dei grandi pick-up Toyota
Il mercato statunitense dei pick-up è molto “nazionalista” e l’unica Casa straniera capace di contrastare i marchi “yankee” negli USA è la Toyota: dopo aver analizzato l’evoluzione del “mid-size” Tacoma abbiamo deciso di concentrarci sulla storia dei più ingombranti “full-size” giapponesi.Il modello attualmente in commercio – il Tundra – è arrivato alla seconda generazione: presentato al Salone di Chicago del 2006, ha uno stile simile a quello del Tacoma (ma più aggressivo) e una maggiore capacità di carico. Tre i motori al lancio: un 4.0 V6 da 239 CV, un 4.7 V8 da 280 CV e un 5.7 V8 da 386 CV.Nel 2010 il 4.7 viene rimpiazzato da un 4.6 da 314 CV mentre al Salone di Chicago del 2013 viene svelato il restyling: mascherina più massiccia, interni ridisegnati, modifiche alle sospensioni e allo sterzo per migliorare il comportamento stradale e potenza del 4.0 – propulsore che abbandona le scene nel 2015 – portata a 273 CV. Di seguito troverete la storia degli antenati di questo veicolo.Toyota T100 (1993)Il T100 – mostrato nel 1993 – è il primo grande pick-up Toyota ma l’esigente pubblico statunitense non lo ritiene abbastanza “full size”: colpa delle dimensioni esterne “contenute” (“solo” 5,31 metri di lunghezza), dell’assenza di propulsori V8 e di alcuni elementi meccanici – come il motore 3.0 V6 da 152 CV e le sospensioni – presi in prestito dal più compatto Hilux.Nel 1994 arrivano l’airbag per il guidatore e un 2.7 a quattro cilindri da 152 CV mentre l’anno successivo il tre litri viene sostituito da un più grintoso 3.4 V6 da 193 CV.Toyota Tundra prima generazione (2000)Il Toyota Tundra prima generazione – venuto alla luce nel 2000 – è più grande del T100 ma è ancora troppo piccolo per gli standard statunitensi: la gamma motori al lancio comprende un 3.4 V6 da 190 CV e un 4.7 V8 da 249 CV.Nel 2002 arriva un restyling che coinvolge soprattutto il frontale mentre nel 2005 il vecchio V6 viene rimpiazzato da un 4.0 da 239 CV mentre la potenza del V8 sale a quota 286 CV (per poi scendere a 275 nel 2006).

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