Monthly Archives: Febbraio 2015

Sedici e 500X, la storia delle piccole SUV Fiat

Da quasi dieci anni la Fiat è entrata nel segmento delle piccole SUV e ora la Casa torinese offre in listino ben due modelli: la Sedici (in via di pensionamento) e l’erede 500X. Di seguito troverete la storia di queste vetture.La Fiat Sedici viene presentata ufficialmente al Motor Show 2005 di Bologna: disegnata da Giorgetto Giugiaro, è prodotta in Ungheria insieme alla gemella (pianale identico e design leggermente diverso) Suzuki SX4. Disponibile inizialmente solo a trazione integrale, ha una gamma motori al lancio che comprende un 1.6 a benzina da 107 CV e un 1.9 turbodiesel MJT da 120 CV.Nel 2008 debutta la variante a trazione anteriore in concomitanza con alcune leggere modifiche estetiche interne mentre nel 2009 è la volta di un profondo restyling: mascherina e paraurti completamente ridisegnati e due nuovi propulsori che rimpiazzano i precedenti (1.6 a benzina da 120 CV e 2.0 MJT a gasolio da 135 CV). Quest’ultima unità abbandona le scene nel 2013.La Fiat 500X, creata per rimpiazzare la Sedici, debutta invece al Salone di Parigi 2014: realizzata sullo stesso pianale della Jeep Renegade e disponibile a trazione anteriore o integrale, è prodotta a Melfi (Basilicata) e si differenzia dalla cugina “yankee” per uno stile meno “off-road”.I motori, per il momento, sono quattro: due a benzina (1.6 da 110 CV e 1.4 MultiAir da 140 CV) e due turbodiesel MultiJet (1.6 da 120 CV e 2.0 da 140 CV). Due le versioni: “normale” e “Cross”. Quest’ultima può vantare paraurti specifici, il sistema Traction Plus sulle varianti 4×2 (che simula il comportamento di un differenziale autobloccante) e scudi di protezione che consentono di aumentare gli angoli di rampa (molto utili nel fuoristrada leggero).

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Pierre-Jules Boulanger, il salvatore della Citroën

Pierre-Jules Boulanger è uno dei personaggi più importanti dell’automobilismo francese. Come direttore generale Citroën (carica ricoperta dal 1937 al 1950) ha infatti gestito i due progetti più importanti della Casa francese: la DS e, soprattutto, la 2CV. Scopriamo insieme la storia di questo manager.Pierre-Jules Boulanger: la biografiaPierre-Jules Boulanger nasce il 10 marzo 1885 a Sin-le Noble (Francia), nel 1906 tenta la carriera militare e due anni più tardi si trasferisce negli USA per cercare fortuna. Tornato in patria nel 1914 per combattere nella Prima Guerra Mondiale, viene decorato con la Legion d’onore al termine del conflitto.L’ingresso in MichelinGrazie all’amicizia col commilitone Marcel Michelin (nipote di Édouard, cofondatore dell’azienda di pneumatici che ancora oggi porta il suo nome) entra nella società nel 1919 come collaboratore e sale la scala gerarchica fino ai vertici, raggiunti all’inizio degli anni ’30.L’ingresso in CitroënLa svolta nella carriera di Pierre-Jules Boulanger arriva nel 1934, anno in cui la Michelin acquista l’intero pacchetto azionario della Citroën. Diventa assistente del nuovo direttore generale Pierre Michelin e dopo la morte di quest’ultimo (in un incidente stradale nel 1938) prende le redini della società.Boulanger, attraverso un’attenta politica di riduzione dei costi, impiega poco tempo a risollevare la Casa del Double Chevron (penalizzata da conti in rosso): cancella il lancio della superammiraglia 22-V8 preferendo puntare su modelli più accessibili e riporta il marchio al primo posto nelle immatricolazioni tra i costruttori francesi.Progetti importantiNel 1938 Pierre-Jules Boulanger inizia la gestione di due progetti destinati a cambiare la storia della Citroën -VGD (Voiture à Grande Diffusion, un’erede della Traction Avant) e TPV (Très petite voiture, vettura molto piccola) – e affida entrambi i lavori a due professionisti di alto livello: André Lefebvre per la parte tecnica e Flaminio Bertoni per il design.La 2CVLe decisioni di Boulanger influenzano sopratutto lo sviluppo della nuova “segmento B” del Double Chevron, quella che diventerà la 2CV. Pierre-Jules fissa le linee guida del modello – velocità di 60 km/h, adattabilità alle superfici sconnesse, consumi bassi, prezzo contenuto, linea poco ricercata e materiali resistenti –  e interviene più volte bocciando numerose idee e promuovendone parecchie.La Seconda Guerra MondialeNella Seconda Guerra Mondiale molti personaggi legati al mondo dell’auto scendono a patti con i nazisti ma non Pierre-Jules Boulanger: il manager transalpino rifiuta di collaborare con i tedeschi e per evitare che Adolf Hitler possa mettere le mani sul progetto della 2CV distrugge tutti i 250 modelli di pre-serie realizzati (qualcuno di questi viene ritrovato smontato dopo il conflitto).Il dopoguerraAl termine della guerra il progetto TPV riparte con numerose modifiche: la versione definitiva – la Citroën 2CV – viene presentata ufficialmente al Salone di Parigi del 1948. Boulanger perde la vita due anni più tardi – l’11 novembre 1950 a Broût-Vernet (Francia) – senza avere la possibilità di vedere la fine del secondo progetto da lui gestito: la DS, svelata nel 1955.

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Dacia, la storia della Casa romena

La storia della Dacia è la storia di un successo: quello di un marchio nato quasi mezzo secolo fa capace negli ultimi anni di sedurre tantissimi automobilisti, anche italiani (da noi le immatricolazioni del brand esteuropeo superano persino quelle dell’Alfa Romeo). Merito di prodotti “low-cost” ricchi di sostanza e di un legame con Renault attivo fin dagli esordi. Scopriamo insieme l’evoluzione del marchio romeno.Dacia, la storiaLa Dacia nasce negli anni Sessanta in seguito alla decisione del governo romeno di realizzare un’auto per il popolo assemblando su licenza una vettura estera. Dopo diversi contatti con numerose Case europee viene firmato nel 1966 un accordo con la Renault: nello stesso anno nasce la società UAP (Uzina de Autoturisme Pitești) mentre nel 1968 vede la luce a Mioveni la prima fabbrica da cui esce la 1100 a trazione posteriore, nient’altro che una 8 rimarchiata dotata di un motore posteriore da 46 CV.Alla conquista dell’EstLa svolta arriva nel 1969 con la 1300: la Renault 12 rivista in chiave esteuropea è più grande e spaziosa della 1100 (merito anche della filosofia “tutto avanti”: motore e trazione anteriori) e conquista in breve tempo non solo la popolazione della Romania ma anche molti automobilisti dell’ex blocco sovietico. Nel 1973 è la volta della variante station wagon mentre nel 1975 debutta (insieme alla D6, versione rimarchiata del veicolo commerciale Estafette) la pick-up.Alla fine degli anni Settanta (più precisamente nel 1979) la Dacia svela al Salone di Bucarest la 1310, profondo restyling della 1300 caratterizzato da uno stile più al passo con i tempi e da una gamma ricca di versioni. La più interessante è senza dubbio la Coupé, nata nel 1981 e apprezzatissima dal pubblico giovane.Nel 1988 vede la luce l’unico modello della Casa rumena prodotto prima della fine del comunismo non derivato dalla Renault 12 o dalla 8: la citycar Lăstun. Questa vettura – lunga meno di tre metri e dotata di un motore 0.5 bicilindrico da 23 CV – si rivela un flop.La fine del comunismoIl crollo del regime comunista non arresta la produzione Dacia di modelli basati sulla Renault 12. Solo nel 1995 viene lanciata la Nova, prima vettura disegnata e progettata da ingegneri romeni: una compatta a cinque porte dallo stile poco originale.Il 1999 è l’anno in cui il brand esteuropeo viene acquistato dalla Régie e il primo frutto di questa partnership è la SupeRNova del 2000, una Nova profondamente ristilizzata e più ricca di componenti meccaniche transalpine. Nel 2003 è la volta della Solenza, ultima evoluzione della Nova caratterizzata da finiture più curate e da forme più aggraziate.La Dacia modernaIl periodo d’oro della Dacia inizia ufficialmente nel 2004 con il debutto della Logan, una compatta “low-cost” con la coda che viene venduta anche dalle nostre parti. Il boom delle immatricolazioni nel nostro Paese inizia però con l’arrivo della più versatile station wagon MCV, mostrata al Salone di Parigi del 2006.La piccola Sandero vede la luce nel 2008 ma il modello che contribuisce più di tutti al successo della Casa romena è senza dubbio la SUV Duster mostrata al Salone di Ginevra del 2010: una Sport Utility a trazione anteriore o integrale che può vantare uno stile riuscito, contenuti di buon livello e un prezzo sensibilmente inferiore a quello delle rivali.Gli ultimi anniGli anni Dieci del XXI secolo vedono altre novità interessanti firmate Dacia che contribuiscono ad ampliare la gamma del marchio esteuropeo: nel 2012 vedono la luce la monovolume Lodgy, la multispazio Dokker e la seconda generazione di Sandero e Logan. L’anno seguente tocca invece all’attesissimo restyling della Duster.

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Jacky Ickx, i 70 anni di un mito

F1, endurance, rally raid, turismo, F2 e chi più ne ha più ne metta: Jacky Ickx ha corso e vinto ovunque. Il pilota belga – che questo mese ha compiuto 70 anni – può vantare nel suo ricco palmarès, tra le altre cose, sei 24 Ore di Le Mans e una Dakar ed è stato due volte campione del mondo Sport Prototipi. L’unico alloro che manca alla sua bacheca è il Mondiale F1, più volte sfiorato. Scopriamo insieme la storia di uno dei driver più veloci di sempre.Jacky Ickx, la storiaJacky Ickx nasce l’1 gennaio 1945 a Bruxelles (Belgio). Si avvicina al mondo delle corse grazie al padre – noto giornalista specializzato nel motorsport – e dopo aver disputato alcune gare con le moto (trial) si concentra sulle automobili e più precisamente nella categoria turismo.Il turismoIckx comincia a correre con le vetture turismo nella prima metà degli anni ’60: nel 1963 guida una BMW 700 mentre l’anno seguente inizia a farsi notare nel campionato europeo con la Ford Cortina. Nel 1965, al volante di questo modello, porta a casa il titolo belga mentre trionfa nel campionato continentale Divisione 3 con la Ford Mustang (auto con cui bissa il trionfo a livello nazionale nel 1966).La F2Nel 1966 Jacky Ickx passa alle monoposto di F2 e nello stesso anno partecipa al GP di Germania di F1 con una Matra motorizzata Ford della scuderia Tyrrell (ritirato). Nel 1967 (anno in cui conquista la 1000 km di Spa con una Mirage insieme allo statunitense Dick Thompson e il campionato europeo di F2 davanti all’australiano Frank Gardner e al francese Jean-Pierre Beltoise) gareggia nuovamente in Germania con la Matra e si ritira dopo aver disputato delle eccellenti qualifiche e una gara strepitosa.Il debutto in F1La Cooper si accorge di Jacky e lo ingaggia per disputare gli ultimi due GP della stagione: in Italia, al debutto su una F1, conquista i primi punti in carriera (sesto al traguardo) ma complessivamente si rivela più lento del compagno, l’austriaco Jochen Rindt.La prima vittoriaJacky Ickx viene chiamato dalla Ferrari per correre con la Rossa nel Mondiale 1968 e impiega pochissimo tempo a conquistare i tifosi del Cavallino: si rivela più veloce del coéquipier neozelandese Chris Amon e ottiene il primo podio in carriera nel Circus (Belgio), la prima vittoria (Francia) e altri due terzi posti in Gran Bretagna e in Italia.Il 1968 è anche l’anno in cui arrivano tre vittorie nel Mondiale Sport Prototipi con la Ford GT40: due (6 Ore di Brands Hatch e 1000 km di Spa) in coppia con il britannico Brian Redman e una (6 Ore di Watkins Glen) con il connazionale Lucien Bianchi.La prima Le Mans e la parentesi BrabhamNel 1969 Ickx passa alla Brabham e diventa vicecampione del mondo (risultando più rapido del fondatore del team, l’australiano Jack Brabham) grazie a due vittorie (Canada e Germania), a due secondi posti (Gran Bretagna e Messico) e ad una terza piazza ottenuta in Francia.Nello stesso anno Jacky Ickx conquista – insieme al britannico Jackie Oliver – la 12 Ore di Sebring e la 24 Ore di Le Mans al volante della Ford GT40 ed entra nella storia del motorsport quando in Francia per protestare contro l’anacronistica ed insicura procedura di start (vetture schierate a spina di pesce e piloti allineati dall’altro lato del rettilineo di partenza che attraversano il tracciato correndo a piedi prima di salire in macchina, soluzione che porta i driver a non indossare le cinture di sicurezza per risparmiare tempo) cammina lentamente verso la sua auto, si accomoda a bordo assicurando correttamente il proprio corpo al sedile attraverso il sistema di ritenuta e trionfa comunque.L’era FerrariIl periodo migliore di Jacky in F1 è indubbiamente quello trascorso con la Ferrari all’inizio degli anni Settanta: specialmente nel 1970 quando conquista il 2° posto nel Mondiale con tre vittorie (Austria, Canada e Messico), un secondo posto in Germania e un terzo in Olanda risultando più rapido dei due compagni di scuderia (lo svizzero Clay Regazzoni e il nostro Ignazio Giunti).Nel 1971 (1° in Olanda, 2° in Spagna e 3° a Monte Carlo) Jacky Ickx fa meglio di Regazzoni e dello statunitense Mario Andretti e l’anno seguente (1° in Germania, 2° in Spagna e a Monte Carlo e 3° in Argentina) si sbarazza nuovamente di questi due driver e dei nostri Nanni Galli e Arturo Merzario. Insieme a quest’ultimo disputa la disastrosa stagione 1973, intervallata da un eccellente GP di Gran Bretagna corso al volante di una McLaren (3°, più veloce dei due coéquipier: lo statunitense Peter Revson e il neozelandese Denny Hulme) e dal GP degli USA (7°, più rapido del compagno neozelandese Howden Ganley) affrontato al volante di una Iso-Marlboro.Nel 1972 Ickx conquista inoltre ben sei vittorie con la Ferrari 312PB nel Mondiale Sport Prototipi: quattro con Andretti (6 Ore di Daytona, 12 Ore di Sebring, 1.000 km di Brands Hatch e 6 Ore di Watkins Glen), una (la 1.000 km di Monza) con Regazzoni e una (Austria) con Redman. Insieme a quest’ultimo driver trionfa nel 1973 in due 1.000 km iridate: quella di Monza e quella del Nürburgring.La Lotus e la seconda Le MansIl 1974 (corredato dalla vittoria alla 1.000 km di Spa con una Matra-Simca MS670C guidata insieme al transalpino Jean-Pierre Jarier) è l’anno in cui Jacky inizia a correre per la Lotus: porta a casa due terzi posti in Brasile e in Gran Bretagna e trionfa alla Corsa dei Campioni (non valida per il Mondiale) ma si rivela più lento del compagno svedese Ronnie Peterson. L’anno seguente fa meglio del proprio coéquipier ma ottiene solo un podio (l’ultimo nel Circus, 2° in Spagna) e lascia la scuderia – poco competitiva – a metà stagione.Nel 1975 arriva anche la seconda vittoria alla 24 Ore di Le Mans di Jacky Ickx con una Mirage GR8 guidata insieme al britannico Derek Bell.La seconda metà degli anni ’70Nella seconda metà degli anni ’70 Ickx concentra le proprie energie sulle gare endurance. Nel 1976 vince la terza 24 Ore di Le Mans con una Porsche 936 e con la Casa di Zuffenhausen ottiene altri tre successi con il tedesco Jochen Mass (Mugello, Vallelunga, Digione).Il quarto trionfo sulla Sarthe per Jacky Ickx arriva nel 1977 con la Porsche 936/77 insieme al tedesco Jürgen Barth e allo statunitense Hurley Haywood mentre il binomio con Mass permette al marchio teutonico di trionfare per altre tre volte nel Mondiale Sport Prototipi (Silverstone, Watkins Glen e Brands Hatch) e di portare a casa la 6 Ore di Silverstone del 1979.Per quanto riguarda la F1 Jacky corre nel 1976 con la Williams (risultando più veloce del compagno francese Michel Leclère e più rapido del nostro Renzo Zorzi nella prima prova stagionale in Brasile). Nella seconda metà del campionato passa alla Ensign e resta con questa scuderia fino al 1978.Nel 1979 Jacky Ickx conquista il campionato nordamericano Can-Am con una Lola davanti al britannico Geoff Lees e affronta la sua ultima stagione nel Circus al volante di una Ligier, senza tuttavia riuscire a convincere più del coéquipier transalpino Jacques Laffite.Gli anni ’80Gli anni ’80 si aprono alla grande per Ickx, che nel 1981 sale sul gradino più alto del podio (per la quinta volta) della 24 Ore di Le Mans insieme a Bell con una Porsche 936 (trionfo bissato l’anno seguente con una 956).Jacky Ickx conquista inoltre due Mondiali Sport Prototipi con la Porsche nel 1982 (con la 956) e nel 1983 (con la 956-83): il primo anno grazie a quattro vittorie (oltre a Le Mans, la 1.000 km di Spa, la 6 Ore del Fuji e la 1.000 km di Brands Hatch) e il secondo grazie a due successi (Nürburgring e Spa).L’ultimo successo rilevante per Jacky arriva sempre nel 1983, anno in cui al volante di una Mercedes classe G taglia per primo il traguardo della Dakar.Gli ultimi trionfiAnche negli anni ’80 Jacky Ickx resta un protagonista delle gare endurance: nel 1984 vince con la Porsche 956 insieme a Mass a Silverstone e a Mosport e nel 1985 questo binomio porta a casa altri tre successi (Mugello, Silverstone e Shah Alam). Alla fine della stagione – nella quale è protagonista dell’incidente a Spa che porta la morte di Stefan Bellof – Ickx si ritira ufficialmente dalle corse su pista.

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Zagato Hyena (1992): il lato oscuro della Lancia Delta

La Zagato Hyena del 1992 è un’auto molto amata dai lancisti: questa rarissima coupé (solo 25 gli esemplari prodotti) realizzata sulla stessa base della mitica Lancia Delta Integrale è il simbolo di quello che avrebbe potuto fare la Casa torinese se solo avesse deciso di continuare a puntare sulla sportività. Non fatevi ingannare dalle quotazioni ufficiali che recitano 40.000 euro: ce ne vogliono circa 100.000 per trovare qualcuno disposto a vendervi un esemplare ben conservato.Zagato Hyena (1992): le caratteristiche principaliIl progetto della Zagato Hyena nasce all’inizio degli anni ’90 quando l’importatore olandese Lancia Paul Koot propone al marchio piemontese di realizzare una versione sportiva della Delta Integrale in modo da proseguire la carriera dell’auto da rally più vincente della storia (10 Mondiali – quattro Piloti e sei Costruttori – tra il 1987 e il 1992).Koot si rivolge quindi al carrozziere Zagato: dopo aver ottenuto dalla Lancia solo il diritto di usare il marchio viene costruita la vettura, che viene presentata ufficialmente al Salone di Bruxelles del 1992. il design firmato Marco Pedracini – contraddistinto da forme tondeggianti e dalle caratteristiche gobbe sul tetto – conquista subito il pubblico ma il prezzo (140 milioni di vecchie lire) scoraggia molti potenziali clienti.Il motivo di un listino così salato? I costi di produzione. Per costruire la Zagato Hyena vengono prese delle Lancia Delta Integrale di serie che vengono “spogliate” in Olanda e riassemblate a mano a Rho, in provincia di Milano, utilizzando materiali pregiatissimi come l’alluminio (per i pannelli della carrozzeria) e la fibra di carbonio (per la plancia e per i rivestimenti interni). Elementi che contribuiscono (insieme all’eliminazione del divano posteriore, al suo posto la ruota di scorta e un telo trapuntato) a ridurre il peso della compatta torinese di 150 kg.Il progetto iniziale di produrre 500 esemplari in serie svanisce rapidamente dopo l’ennesimo rifiuto della Lancia di collaborare: al lancio si parla di 75 unità, che diventano però solo 25 dopo che molte prenotazioni iniziali non si concretizzano in un acquisto.La tecnicaLa base tecnica della Zagato Hyena è la stessa della Lancia Delta Integrale: quattro ruote motrici e un motore 2.0 sovralimentato (con potenze fino a 250 CV) che permette alla coupé lombarda di raggiungere una velocità massima di 230 km/h e di accelerare da 0 a 100 chilometri orari in 5,4 secondi. Il piacere di guida è ulteriormente migliorato: merito del passo più corto, dell’assetto più rigido e degli ammortizzatori Koni.Le quotazioniLe quotazioni ufficiali recitano 40.000 euro ma tre anni fa un esemplare della Hyena è stato venduto all’asta a quasi 90.000 euro. Considerando l’inflazione e il crescente interesse storico di questa rarissima sportiva è impossibile pensare di acquistarla oggi con meno di 100.000 euro.

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Mini One/One De Luxe (2001): classica domani

Le Mini One e One De Luxe del 2001 sono piccole perfette per chi cerca un’auto utilizzabile tutti i giorni destinata a diventare d’epoca e non vuole spendere grosse somme. Le versioni “base” della seconda generazione della “segmento B” britannica (la prima realizzata da BMW) hanno quotazioni basse (2.000 euro), si trovano senza problemi e sono perfette nel traffico grazie alle dimensioni da citycar (poco più di 3,60 metri di lunghezza).Mini One/One De Luxe (2001): le caratteristiche principaliLa Mini One e la Mini One De Luxe – le varianti meno care presenti nel listino della “baby” inglese – sono identiche esteticamente: la seconda ha una dotazione di serie più ricca che comprende accessori – come l’autoradio (standard dal 2003 anche sulla One), il climatizzatore e i fendinebbia – che sulla prima sono optional.I punti di forza di quest’auto sono parecchi: gli ingombri contenuti e le ampie superfici vetrate sono di grande aiuto nei parcheggi e le finiture appaiono ancora oggi molto curate. Da non sottovalutare, inoltre, i bassi costi di gestione (a meno che non ci si rivolga alle officine ufficiali) rispetto ad altre future “storiche”.La praticità delle Mini One e One De Luxe non è, invece, il massimo (difetto comune a tutta la gamma): i posti a sedere sono solo quattro e il bagagliaio di soli 160 litri è piccolo. Capitolo tenuta di strada: la piccola di Sua Maestà è incollata all’asfalto nonostante sospensioni non troppo rigide ma non è molto agile nelle curve per via del peso elevato (superiore a 1.000 kg).Gli esemplari costruiti da luglio 2004, a detta di chi ha posseduto questo modello, sono più affidabili (specialmente alla voce "cambio", nota dolente della prima Mini by BMW) ma bevono anche di più.La tecnicaIl motore 1.6 Euro 4 a benzina da 90 CV della Mini One (e della One De Luxe) non è un fulmine di guerra ed è penalizzato dalla cilindrata elevata (il vostro assicuratore sarà contento). Grazie a quest’ultimo elemento, però, i tecnici della Casa britannica sono riusciti a ricavare un’unità ricca di coppia (140 Nm) in grado di offrire un certo brio già intorno ai 3.000 giri.Questo propulsore di origine Chrysler, prodotto in Brasile e montato anche sulla PT Cruiser, è più elastico di quello adottato dalla più potente Cooper: con meno allungo ma più sfruttabile nell’uso quotidiano.Le quotazioniLe Mini One e (soprattutto) One De Luxe sono facilissime da trovare: le quotazioni ufficiali recitano 2.000 euro ma in realtà bisogna tirarne fuori almeno 3.500 per entrare in possesso di un esemplare ben tenuto. La piccola britannica ha un futuro assicurato come auto d’epoca (soprattutto per quanto riguarda gli esemplari pre-lifting) e il suo prezzo è quindi destinato a salire nei prossimi anni: stiamo pur sempre parlando di una delle vetture più desiderate dai giovani degli anni Duemila.

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Perché le Porsche hanno la chiave a sinistra?

Perché le Porsche si avviano inserendo la chiave alla sinistra del volante? Questa è la prima domanda che viene in mente a chi ha la fortuna di accomodarsi a bordo di una vettura della Casa di Zuffenhausen. Quello che oggi è un semplice vezzo nasce in realtà da una necessità riguardante le gare, soprattutto la 24 Ore di Le Mans.Perché le Porsche hanno la chiave a sinistra?Negli anni ’50 e ’60 la Porsche è una protagonista assoluta del motorsport e in quel periodo diverse gare iniziano con la “partenza Le Mans”: vetture schierate a spina di pesce con il motore spento e piloti allineati dall’altro lato del rettilineo di partenza che attraversano il tracciato correndo a piedi prima di salire in macchina.Il posizionamento del blocchetto di accensione a sinistra permette quindi ai piloti – che possono ingranare la marcia con la mano destra e girare la chiave con l’altra – di rispamiare tempo durante la fase di start.L’ultima 24 Ore di Le Mans disputata con questa modalità di partenza risale al 1969, anno in cui il pilota belga Jacky Ickx – per protestare contro una procedura anacronistica e insicura (per risparmiare tempo i driver non indossano la cintura di sicurezza) – cammina lentamente verso la sua Ford GT40 anziché correre, si accomoda a bordo, assicura correttamente il proprio corpo al sedile attraverso il sistema di ritenuta e vince la corsa nonostante il mezzo giro perso per questa operazione.In seguito a questo gesto gli organizzatori della gara endurance francese – a partire dall’edizione del 1970 – optano per uno “start” con tutti i corridori già seduti in auto: a salire sul gradino più alto del podio di questa corsa, per la prima volta nella storia, è (curiosamente) proprio una Porsche.

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Toyota Tacoma, la storia del pick-up giapponese

Il Toyota Tacoma, pick-up “entry-level” della Casa giapponese destinato al mercato nordamericano, compie 20 anni. Per l’occasione al Salone di Detroit 2015 il brand nipponico ha svelato la terza generazione di questo veicolo commerciale adatto ad automobilisti attivi che cercano la massima versatilità.L’ultima evoluzione di questo modello – più leggero rispetto alle antenate grazie anche all’alluminio utilizzato per buona parte del pianale – è disponibile a trazione posteriore o integrale e ha una gamma motori al lancio (potenza non ancora comunicata) composta da due unità a benzina: un 2.7 a quattro cilindri e un 3.5 V6 a ciclo Atkinson. Scopriamo insieme la storia di questa vettura, molto apprezzata negli States.Toyota Tacoma prima generazione (1995)La prima generazione del Toyota Tacoma vede la luce nel 1995: nata per rimpiazzare la Hilux, si distingue per un migliore comportamento su asfalto. Tre i motori al lancio: due a quattro cilindri (2.4 da 144 CV e 2.7 da 152 CV) e un 3.4 V6 da 193 CV.I due restyling – il primo nel 1997, il secondo nel 2000 – portano alcune modifiche estetiche (specialmente nella zona frontale) e pochi cambiamenti tecnici: la novità più rilevante arriva nel terzo millennio con l’introduzione della variante dotata di porte posteriori.Toyota Tacoma seconda generazione (2004)Il Toyota Tacoma seconda generazione viene presentato ufficialmente al Salone di Chicago del 2004: più grande e più brioso di prima, presenta numerose varianti di carrozzeria e motori più potenti.La gamma propulsori al debutto è composta da due unità: un 2.7 a quattro cilindri da 162 CV e un 4.0 V6 da 239 CV. Nel 2009 si assiste ad un leggero restyling che coinvolge soprattutto la mascherina e alcuni dettagli relativi all’impianto audio mentre il secondo lifting del 2012 porta più modifiche estetiche e interni completamente rivisti.

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La breve vita di Lucien Bianchi

Molti appassionati di motorsport conoscono Lucien Bianchi solo perché è prozio di Jules (vittima di un pauroso incidente lo scorso ottobre al GP del Giappone e ancora oggi privo di conoscenza all’ospedale di Nizza). In realtà questo pilota belga di origini italiane può vantare nel proprio palmarès diversi successi importanti: scopriamo insieme la sua storia.Lucien Bianchi, la storiaLucien Bianchi nasce il 10 novembre 1934 a Milano. A 12 anni si trasferisce in Belgio per seguire il padre, ex meccanico della Squadra Corse Alfa Romeo ingaggiato dal gentleman driver locale Johnny Claes.Il debutto nelle corseLucien debutta nelle corse appena ha la possibilità di guidare un’automobile: partecipa al Tour de France del 1952 con una Jaguar XK120 insieme al connazionale Jacques Herzet (38°) e l’anno seguente i due – su una Ferrari 166 MM – portano a casa il 7° posto assoluto. Tra gli altri risultati rilevanti segnaliamo l’11° piazza di classe alla 12 Ore di Reims del 1956 con il francese Christian Poirot.Le prime vittorieLa stagione della svolta per Lucien Bianchi è quella del 1957, anno in cui sale sul gradino più alto del podio del Tour de France insieme al belga Olivier Gendebien con una Ferrari 250 GT. Il duo conquista questa corsa in altre due occasioni.F1 e non soloLucien Bianchi esordisce in F1 in occasione del GP di Monte Carlo del 1959 al volante di una Cooper ma non riesce a qualificarsi. Si riscatta l’anno seguente conquistando un punto grazie ad un 6° posto in Belgio. Sempre nel 1960 trionfa alla 1.000 km di Parigi con una Ferrari 250 GT in coppia con Gendebien.Nel 1961 – anno in cui ottiene il primo risultato di un certo rilievo nei rally (2° al Tour de Corse con una Citroën DS) – corre quattro GP senza mai riuscire a tagliare il traguardo: uno (Monte Carlo) con una Emeryson e tre (Belgio, Francia e Gran Bretagna) con una Lotus. Nelle ultime due corse – disputate con la scuderia UDT Laystall – risulta più lento del compagno, il britannico Henry Taylor.Soddisfazioni e delusioniIl 1962 inizia alla grande per Lucien Bianchi (primo alla 12 Ore di Sebring insieme allo svedese Joakim Bonnier su una Ferrari 250) mentre in F1 le cose non vanno altrettanto bene: due gare con la Lotus (una 9° piazza in casa come miglior risultato). Va ancora peggio nel 1963: un GP con la Lola in Belgio terminato con un ritiro e un 2° posto al Tour de France con la Ferrari 250 GTO in coppia con il nostro Carlo Mario Abate.La ripresaDopo il 21° posto al Rally di Monte Carlo del 1964 Lucien trionfa al Tour de France con il connazionale Georges Berger. Nel 1965 arrivano diversi risultati di rilievo: la vittoria alla 500 km del Nürburgring insieme al fratello Mauro (il nonno di Jules) con una Alpine M65 e due secondi posti (Rally Stoccarda-Lione-Charbonnières con una Alfa Romeo Giulia e a Zolder nel campionato europeo turismo con una Ford Mustang). Nell’unico GP di F1 disputato in quell’anno arriva 12° in Belgio con una BRM (meglio del coéquipier statunitense Masten Gregory).Chiudere in bellezzaNella seconda metà degli anni ’60 Lucien Bianchi ottiene piazzamenti interessanti soprattutto nelle gare endurance: nel 1967 arriva la vittoria alla 6 ore del Nürburgring con il francese Jean Rolland su un’Alfa Romeo Giulia GTA. Con la Casa del Biscione ottiene anche, nel 1968, il secondo posto al Rally di Ginevra e il terzo al Tour de Corse.Il 1968 – anno di altri due trionfi (6 Ore di Watkins Glen con la Ford GT40 insieme al connazionale Jacky Ickx e il Mugello con un’Alfa Romeo T33/2 guidata anche dai nostri Nino Vaccarella e Nanni Galli – è anche la migliore stagione in F1 per il pilota belga che al volante di una Cooper ottiene l’unico podio in carriera nel Circus (3° a Monte Carlo) e un 6° posto in Belgio risultando più rapido del nostro Ludovico Scarfiotti e del britannico Brian Redman. Nella seconda metà della stagione è però meno brillante del compagno inglese Vic Elford.Le Mans, la gloria e la morteLa vittoria più importante di sempre per Lucien Bianchi arriva il 29 settembre 1968 quando il driver belga – al volante di una Ford GT40 in coppia con il messicano Pedro Rodríguez – trionfa alla 24 Ore di Le Mans  .Sullo stesso circuito, però, perde la vita il 30 marzo 1969 durante un test quando si schianta contro un palo del telegrafo al volante della sua Alfa Romeo T33.

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Il sognatore Preston Tucker

Preston Tucker è stato soprattutto un sognatore: questo imprenditore statunitense ha cercato, nel secondo dopoguerra, di contrastare (senza successo) le “Big Three” (Chrysler, Ford e GM) e la sua storia, ricca di delusioni, è stata raccontata da Francis Ford Coppola nel film del 1988 “Tucker, un uomo e il suo sogno”. Scopriamola insieme.Preston Tucker: la biografiaPreston Tucker nasce il 21 settembre 1903 a Capac (USA). Orfano di padre dall’età di due anni, inizia a guidare a 11 anni e a 16 si occupa già di acquistare auto vecchie, di restaurarle e di rivenderle. Dopo aver lavorato come fattorino alla Cadillac tenta nel 1922 di arruolarsi in polizia ma è troppo giovane.Si sposa un anno più tardi e per qualche tempo alterna il lavoro in fabbrica alla Ford (successivamente interrotto per entrare in polizia) con la gestione di una stazione di servizio a Lincoln Park che funge anche da rivenditore di Studebaker.La carriera di venditoreGrazie ad ottime doti relazionali Preston Tucker fa rapidamente carriera come venditore di automobili: si sposta a Memphis per diventare responsabile commerciale della locale concessionaria Chrysler, nel 1933 si trasferisce a Buffalo per seguire gli affari della Pierce-Arrow ma dopo pochi mesi torna a Detroit per vendere Dodge.Mettersi in proprioNella prima metà degli anni ’30 Tucker diventa ufficialmente un imprenditore quando crea insieme al progettista Harry Miller una società specializzata nella produzione di auto da corsa. Nella seconda metà del decennio si concentra invece sui mezzi militari e realizza un piccolo autoblindo dotato di un motore V12. Il veicolo – considerato troppo veloce – viene rifiutato dall’esercito statunitense ma riscuote successo la torretta progettata da Preston, che viene utilizzata dalla marina americana.Nel 1940 Preston Tucker tenta, senza troppa fortuna, di conquistare l’aviazione: crea la Tucker Aviation Corporation e costruisce un prototipo che purtroppo non riesce a “sedurre” i vertici militari. Nel 1942 l’azienda da lui fondata viene acquistata dalla Higgins (specializzata in mezzi navali) ma dopo un anno nella nuova sede di New Orleans abbandona il socio Andrew Jackson Higgins, torna a Detroit e si mette in proprio.Nasce la TuckerLa Casa automobilistica Tucker vede la luce alla fine della Seconda Guerra Mondiale quando Preston decide di costruire una vettura più moderna della concorrenza in grado di rubare clienti ai mezzi costruiti dai grandi gruppi Chrysler, Ford e General Motors. Nel 1947 viene presentata la 48, innovativa nel design (aerodinamico e sexy, opera di Alex Tremulis) e nella tecnica.L’ingombrante (lunghezza superiore ai cinque metri e mezzo) ammiraglia ideata da Preston Tucker monta un motore posteriore 5.5 boxer ad iniezione derivato da unità precedentemente adottate da elicotteri e in grado di generare una potenza di 166 CV, quattro sospensioni a ruote indipendenti e freni a disco. La sicurezza è inoltre garantita dalle cinture, dal cruscotto imbottito, dal piantone dello sterzo collassabile e dal faro centrale girevole collegato al volante per migliorare l’illuminazione in curva.La Tucker 48 viene assemblata in soli 51 esemplari: Preston viene accusato di bancarotta fraudolenta nel 1949 ma nonostante l’assoluzione (nel 1950) la sua reputazione (e quella delle vetture da lui prodotte) cala.Gli anni ’50Negli anni Cinquanta Preston Tucker tenta nuovamente di sfondare nel mercato automobilistico – questa volta in Brasile – con una sportiva chiamata Carioca (vettura che non vedrà mai la luce). L’imprenditore statunitense scompare il 26 dicembre 1956 a Ypsilanti (USA) per un tumore ai polmoni.

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